Dietro le quinte della MotoGP: Matteo Flamigni

Dietro le quinte della MotoGP: Matteo Flamigni
Si è conquistato la fiducia di Valentino Rossi e di Jeremy Burgess e con il crescere dell’importanza dell’elettronica il ruolo dell’ingegnere Matteo Flamigni - telemetrista Yamaha - è diventato fondamentale | G. Zamagni
14 maggio 2013


Si è conquistato – sul campo – la fiducia di Valentino Rossi e di Jeremy Burgess e con il crescere dell’importanza dell’elettronica, il ruolo dell’ingegnere Matteo Flamigni all’interno del team Yamaha è diventato addirittura fondamentale. Grande appassionato di ciclismo, Matteo è un bell’esempio di professionalità, competenza, ma anche di come si dovrebbe vivere lo sport: sempre con il sorriso sulle labbra, anche nei momenti più critici.


Nome e cognome?
«Matteo Flamigni».


Nato dove e quando?
«Faenza, in provincia di Ravenna, 2 giugno 1970».


Che scuole hai frequentato?
«L’Istituto Tecnico e poi Ingegneria Elettronica a Bologna».


Qual è la prima corsa di moto che hai visto?
«Avevo 15-16 anni, andai a Misano per una gara del Trofeo Honda VF400: c’era un mio compaesano, Giorgio Tedioli, grazie al quale, poi, ho iniziato a fare questo lavoro. Tedioli, tra l’altro, quell’anno vinse il campionato, al quale partecipava anche Fabrizio Pirovano; Giorgio correva per il Motoclub Modigliana, dove abito: il suo successo fu un evento straordinario per il nostro paese».


Come ti sei appassionato alle moto?
«Grazie al mio babbo. In realtà, a pensarci bene, la prima gara l’ho vista a sei anni, nel 1976, a Imola, non ricordo bene se era il Gran Premio delle Nazioni o la 200 Miglia, portato dal mio babbo, un grande appassionato. Ha un negozio che vende bici e scooter e mi portò a Imola dove c’erano Kenny Roberts, Randy Mamola, che però non corse perché era troppo giovane, Mike Sinclair, con il quale poi ho lavorato in Yamaha nel 2000 con Max Biaggi».


Come sei arrivato al mondiale?
«Giorgio Tedioli nel 1994 mi chiese di entrare a far parte del team “Gattolone” in SBK, dove correva un altro mio compaesano, Gianmaria Liverani. Sapevano che mi stavo laureando in ingegneria – allora mi mancavano un paio di esami: avevano un sistema di acquisizione dati, mi chiesero se ero in grado di farlo funzionare. Ho iniziato così, quasi per gioco. Sono partito sapendo poco o nulla di dinamica del veicolo, ma molto di elettronica informatica, argomento sul quale mi stavo laureando. Ho iniziato a lavorare su quel sistema, l’ho fatto funzionare facendo, a mio avviso, un lavoro discreto sulla Ducati 916».


Poi?
«Anche l’anno successivo ho continuato nel team Gattolone con Pierfrancesco Chili, usando sempre lo stesso sistema di acquisizione, poi nel 1997 ho fatto il salto in 500 con la Yamaha con il team Power Horse con Luca Cadalora e Troy Corser. Nel ’98-’99 ho lavorato con il team Gresini, prima con Alex Barros con la Honda 4 cilindri, quindi con Loris Capirossi in 250, per poi passare alla Yamaha nel 2000 con Max Biaggi, con il quale sono stato fino al 2002. Nel 2003 sono stato con Marco Melandri e dal 2004 lavoro con Valentino Rossi, che ho seguito anche nei due anni in Ducati».


Qual è esattamente il tuo lavoro?
«Preparare e gestire il sistema di acquisizione sulla moto. Quindi: montare i sensori, averne cura, sostituire i pezzi che si rompono, valutare le condizioni del cablaggio, intervenire se ci sono delle anomalie, tipo un taglio o cose così, gestire a livello software tutti questi aspetti, facendo in modo che tutti questi sensori dialoghino con la centralina, che valuta le informazioni ricevute e fa dei calcoli per elaborare le strategie del “traction control”, dell’antimpennamento, di partenza, di coppia, di erogazione della potenza… Per fare questo, oltre al sistema di acquisizione, ci sono tutta una serie di operazioni che vengono fatte con un altro software, che è quello specifico per gestire le mappe, con le quali si sovrintende il comportamento della moto in pista».


In sintesi, come è diviso il lavoro?
«La centralina è Magneti Marelli, ma il software principale arriva dal Giappone: è li che vengono gestite le strategie della centralina. Su questi parametri, noi in pista inseriamo numeri diversi per ottenere comportamenti diversi della moto: per esempio, inserendo per una determinata curva il numero 5 piuttosto che l’8, la M1 avrà più o meno traction control. La stessa cosa vale per l’antimpennamento e per tutte le altre strategie di controllo».


Perché il sistema di acquisizione è così importante?
«Perché ci permette di vedere come si comporta la moto in pista guardando i dati raccolti; da questi dati noi siamo in grado, modificando la mappa, di valutare il comportamento della moto nell’uscita successiva: comparando due differenti uscite, con due differenti mappe, siamo in grado di individuare quello più performante. In altre parole, l’acquisizione è importante perché ti permette di capire se stai andando nella direzione giusta: tutti i dati raccolti vengono analizzati e ti permettono di capire dove migliori o peggiori».


Riassumiamo i controlli esistenti su una moto.
«C’è la strategia che controlla la partenza della gara, una che controlla il traction control, una per l’antimpennamento, la strategia che permette di cambiare senza chiudere il gas, una che gestisce l’erogazione della coppia, una per il freno motore. Questi sono i parametri più importanti».


Quanto è cambiato il tuo lavoro da quando hai iniziato a oggi?
«Tanto, perché l’evoluzione dell’elettronica negli ultimi anni è stata incredibile».


Addirittura troppo?
«Dipende dai punti di vista. Sicuramente è aumentata la sicurezza, perché certi “high-side” non si vedono più, però è vero che, a livello di spettacolo, l’elettronica così esasperata ha un po’ appiattito il livello, le moto sono molto simili nelle prestazioni e i piloti più bravi sono più penalizzati. Basti pensare che un pilota che sale dalla Moto2 alla MotoGP riesce a essere subito velocissimo: non mi riferisco a Marquez, che è un fenomeno, ma ad altri piloti, che pensavo sarebbero stati più in difficoltà con una MotoGP, invece si sono trovati a proprio agio. Questo deriva proprio dagli aiuti elettronici, mentre era impensabile con le 500 2T, dove l’elettronica era meno invasiva».


Scusa per l’interruzione; torniamo a come è cambiato il tuo lavoro.
«Quando io ho iniziato nel ’94 avevamo una decina di sensori sulla moto, mentre adesso, considerando anche i canali matematici, che derivano su un calcolo matematico effettuato su grandezze acquisite, abbiamo oltre 200 canali! Questo, automaticamente, fa aumentare esponenzialmente il tempo di analisi, perché non devi più guardare 10 canali, ma 200, così come è aumentato il numero delle strategie e ogni strategia richiede un controllo accurato di tutti i parametri. Prendiamo l’antimpennamento: con tutti i parametri che comprende richiede un’analisi molto più approfondita della strategia di antimpennamento esistente fino a 10 anni fa. Allora erano anche banali e grossolane: c’è stato un affinamento, non solo dell’elettronica, ma anche del “ragionamento” dell’elaborazione. Il lavoro è in generale più complesso».


Si può dire che il telemetrico adesso è la figura più importante di un team?
«Non devi fare a me questa domanda…».


La cambio: il pilota passa più tempo con il telemetrico che con il capomeccanico?
«Sì, perché i parametri in ballo sono veramente tanti e l’elettronica interagisce pesantemente con la dinamica del veicolo. Quindi non è soltanto un assetto, un angolo di sterzo, anche se queste modifiche dovrebbero andare di pari passo con quelle elettroniche; cambia, per esempio, se fai una modifica al traction control e in quel momento hai anche montato una gomma nuova, che ti dà maggiore grip».


Tanta responsabilità, quindi, ma anche tanta soddisfazione?
«Sì. Con Valentino in questi anni ho avuto tantissime gratificazioni, ma al di là della vittoria e del risultato finale dà gusto quando il pilota ti dice: “ho provato in gara quella particolare configurazione: grazie, perché c’è stato un miglioramento”. Ti senti molto più parte del progetto: prima analizzavi i dati e dicevi la tua, ma era il capomeccanico che gestiva a suo modo i dati che gli venivano presentati, adesso ho la mia responsabilità e libertà, faccio le mie mappe senza dover interagire con altri se non con il pilota, tenendo ovviamente a mente quello che accade a livello di dinamica: non posso gestire l’elettronica a “prescindere”, devo comunque seguire di pari passo l’evoluzione della messa a punto del telaio e della ciclistica».


Lavori con due fuoriclasse come Rossi e Burgess; hai carta bianca, si fidano ciecamente di te?
«Sì, fortunatamente questa cosa è successa subito, fin dal primo test del 2004. Io ero già in Yamaha quando loro sono arrivati, io conoscevo la moto, le strategie che si usavano in quegli anni: da subito c’è stata fiducia reciproca».


Che consiglio daresti a un ragazzo che si è appena laureato in ingegneria elettronica e vuole fare il “telemetrista” nel motomondiale?
«Innanzitutto deve avere una passione sfegatata per le moto: è l’elemento principale. Poi gli consiglierei di partire dai campionati meno importanti. Vedo dei ragazzini che partono dalla Moto3, che però è già un livello altissimo, quindi tutt’altro che semplice: meglio partire dal campionato italiano, o da qualcosa di simile, perché si ha la possibilità di capire di cosa si sta parlando, si ha la possibilità di sbagliare senza troppe pressioni e si può fare la classica gavetta. Io l’ho fatta e mi è servita, perché al di là del lavoro devi imparare anche a gestire la vita quotidiana: sei in giro per una settimana, magari con australiani, belgi, francesi, spagnoli… Devi mangiare e dormire con loro, dovendoti adattare: puoi essere eccezionale nel tuo lavoro, ma pessimo nei rapporti umani. Meglio un telemetrista mediocre, ma che sappia stare in “squadra”, che crei “gruppo”, piuttosto che un super genio, ma non integrato nel box».


Qual è l’aspetto brutto del tuo lavoro?
«Sicuramente stare lontano dalla famiglia, soprattutto quando hai dei figli. Ma questa è una cosa personale. Per quanto riguarda il lavoro in senso stretto, l’aspetto brutto è quando il tuo pilota cade, si fa male. Per il resto, è un bel lavoro, con tanta analisi».


Non è ripetitivo?
«No, perché ogni pista ha le sue caratteristiche. E’ ripetitivo quando vai a gestire certi aspetti, poi, però, c’è una curva particolare, che non è mai uguale a un’altra: questo ti dà sempre l’entusiasmo, la voglia per risolvere il problema specifico, per accontentare il pilota, per migliorare le prestazioni».


Da domani si corre a Le Mans; che circuito è dal tuo punto di vista?
«E’ bello e particolare con frenate importanti che richiedono un assetto efficace nella gestione del freno motore. Va gestita attentamente anche l’erogazione della potenza: la moto dovrà essere stabile, impennare il meno possibile e il pilota dovrà tenere aperto il più possibile il gas senza impazzire con l’antimpennamento. Poi dovrà essere una moto stabile nei curvoni, ma anche reattiva nelle chicane: non è una pista semplice, richiede tanti compromessi».

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