Nico Cereghini: “Se ce l’abbiamo fatta una volta…”

Nico Cereghini: “Se ce l’abbiamo fatta una volta…”
Dalla crisi usciremo. Già negli anni Settanta e Ottanta rischiammo parecchio, tutta la nostra industria della moto stava per sparire. Eppure siamo ancora qui | N. Cereghini
3 marzo 2015

Ciao a tutti! Un amico francese mi chiede di raccontare ciò che ricordo della Laverda V6 e del Bol d’Or 1978 che disputai con quella moto e con Carlo Perugini, bel pilota e grande amico marchigiano. Il francese è appassionato del marchio di Breganze, sta scrivendo un libro sulla sei cilindri 1000, ed ecco che i fili della mia memoria, che dovevano stare, aggrovigliati, in qualche angolo buio, progressivamente si sciolgono e diventano storie e personaggi. Non voglio annoiarvi con fatti privati di quarant’anni fa, quando il libro uscirà lo segnalerò agli interessati. Voglio soltanto collegare quell’epoca alla nostra.


La Guzzi navigava a vista. Il discutibile De Tomaso, proprietario dal ’73, era impegnato a copiare le Honda a quattro e sei cilindri sulle linee Benelli e per fortuna c’era un tecnico come Lino Tonti e non furono abbandonate le bicilindriche a V; la Le Mans fu un successo, la California quasi, ma le piccole V35 e V50 davano un mucchio di problemi, i concessionari erano disperati e solo i più tenaci resistettero, la leggendaria aquila rischiò di inabissarsi nel lago ad ali aperte.


E la Ducati? Ammiravo l’ingegner Fabio Taglioni, ma il genio non basta se la gestione dei manager è disastrosa. A metà anni Settanta Borgo Panigale finì nell’orbita dello Stato, Efim e Finmeccanica, e quando arrivarono finalmente i fratelli Castiglioni a salvarla, nei primi Ottanta, la produzione delle moto era calata fino a duemila pezzi. Le corse? Per i vertici erano soldi buttati, e se non ci fossero stati quelli della NCR e un eroico Franco Farnè, anche la più leggera e potente delle bicilindriche italiane, la 750 nata nel ’73 dopo la 200 Miglia di Imola, sarebbe finita in niente. Senza i Castiglioni, oggi la Ducati neanche esisterebbe.
 

Negli anni Settanta e Ottanta l’industria italiana della moto era in una profonda depressione e stava andando a fondo. Se ce l’abbiamo fatta allora –mi dico- possiamo farcela anche questa volta

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Purtroppo, proprio la mia Laverda è sparita. In quel lontano ’78 guidavo al Castellet la velocissima V6 1000 e però già si sapeva che difficilmente quel progetto modulare sarebbe diventato realtà. Massimo Laverda sognava nuove bicilindriche compatte e leggere, quattro cilindri potenti e raffinate, sei cilindri da sogno; ma la crisi mordeva e la proprietà era troppo frazionata e incerta. Purtroppo, Massimo se n’è andato nell’85 a soli quarantasette anni e il suo marchio, dopo tante vicissitudini, è finito all’Aprilia, alla Piaggio e poi nel dimenticatoio.
 

Anche la Guzzi dopo mille peripezie finì nelle mani di Beggio e quindi alla Piaggio. Oggi, benché piccola, è viva e si difende. Mentre la Ducati, nel gruppo tedesco VW, è viva più che mai e lavora forte. Nonostante i rimpianti di molti anzianotti, insomma, negli anni Settanta e Ottanta l’industria italiana della moto era in una profonda depressione e stava andando a fondo. Se ce l’abbiamo fatta allora –mi dico - possiamo farcela anche questa volta.

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