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Intanto l’industria giapponese era cresciuta vertiginosamente, dal 1954 il PIL era salito del 10% l’anno, e una casa come quella fondata da Soichiro Honda, che nel ’37 faceva i pistoni per la Toyota e nel ‘48 montava per la prima volta un motorino ausiliario sulle biciclette, era diventato il più grande produttore di moto al mondo con oltre tre milioni di pezzi nei dodici mesi. Honda aveva investito subito sulle corse per farsi conoscere, già nel ’61 conquistava i mondiali 250 e 350 con Mike Hailwood; la 500 sarebbe arrivata nella classifica per marche del ’66. E poi si sarebbe lanciata nel cross negli anni Ottanta, e avrebbe vinto la Dakar nell’82, sempre più forte. Erano scomparse case motociclistiche come Bridgestone e Tohatsu, Yamaha si imponeva come numero due (e per prima giapponese vinceva con Ago il titolo piloti in 500 nel 1975), Suzuki si creava la sua immagine, Kawasaki era diventato un colosso mondiale della meccanica e faceva, e fa, le moto quasi per hobby. Ma piloti internazionali, sempre pochi.
La svolta quando si tornò a correre a Suzuka, dall’87; con le prime pole e le vittorie di piloti mai visti prima come Honma, Kobayashi e Shimizu in 250. La corsa della 125 nell’89 fotografa l’esplosione del talento giallo: primo Ezio Gianola, poi nove pilotini giapponesi, tutti su Honda; undicesimo Gresini con l’Aprilia. Roba mai vista. Poi nel ’91 si presentò Noboru Ueda, esordio e trionfo a Suzuka, che sarebbe rimasto tutta la carriera con la Honda vincendo 13 Gp nell’arco di dodici anni, con ben 160 partenze tutte nella 125. Ueda ha fatto scuola; lui, che per espressività, mimica ed umorismo pareva un napoletano più che un giapponese, si è ambientato bene in Italia, in Europa, ed ha spinto tanti altri giovani piloti a correre il mondiale.
Ecco Tetsuya Harada, campione 250 (Yamaha) nel ’93 ai danni di Capirossi, che aveva una moglie interprete, Yuki, che parlava l’italiano. Lui ha vinto 17 volte fino al 2001, come un altro connazionale che è rimasto in molti cuori: il povero Daijiro Katoh, fortissimo pilota della Honda e del team Gresini, campione della quarto di litro nel 2001 e poi passato in MotoGP fino al tragico schianto di Suzuka del 20 aprile 2003, rimasto misterioso nella sua dinamica. Si è detto che l’acceleratore restò spalancato. Chissà. Poi i campioni in serie: Sakata, Kazuto anzi cazutissimo, due volte iridato della 125 a fine anni Novanta come Haruchika Aoki, ed i tantissimi vincitori qui e là nello stessa favorevole epoca: Nobuatsu Aoki, Azuma, Ui, Tokudome, Manako, Tsujimura e la lista è lunga fino a Tadayuki Okada e a Shinya Nakano in 250, quello che nel 2000 ha perduto la 250 per 14 millesimi, fino a Yohru Ukawa che ha vinto anche in MotoGP, nel 2002. Oggi sono rimasti in pochi, nel mondiale: Nakagami, Koyama, Takahashi in Moto 2, Fujii in Moto3.
Nelle altre specialità è da segnalare il grande Akira Watanabe, che conquistò la 125 iridata di motocross tra Rahier ed Harry Everts, nel trial il più grande talento è stato Takahisa Fujinami, vincente fin da giovanissimo (suo il record di precocità) e campione mondiale nel 2004.
Ma il più grande nel mio cuore è stato Abe, Norifumi Abe che un camionista purtroppo ha ucciso nel 2007 sulla strada a 32 anni; ed era solo diciannovenne quando lo conoscemmo a Suzuka, esordiva in 500 e lottò per la vittoria fino a cadere a due giri dalla fine. Colpiva, ma aveva un grande pressione addosso: volevano farne il primo giapponese a vincere il titolo più importante. Dopo dieci stagioni, alti e bassi, tre vittorie, tanta sfortuna, un po’ di SBK, era tornato a fare il collaudatore. Nella top class ha fatto meglio Okada, quattro successi, poi Makoto Tamada con due. E nel cuore degli italiani è ancora più fresco il ricordo del funambolico Noriyuki Haga, classe ’75, che in SBK ha fatto più di 300 partenze vincendo 43 volte soprattutto su Yamaha. Kyonari e Kagayama gli altri due specialisti nelle derivate.
In comune, i piloti giapponesi hanno forte volontà, pazienza, disciplina, capacità di soffrire
Quale è il DNA dei piloti giapponesi? Il luogo comune dice che come i kamikaze che nella seconda guerra mondiale si lanciavano nei famosi attacchi aerei suicidi, e si parla di quasi 4.000 piloti immolati alla Patria e all’Imperatore, così i piloti della velocità sono stati soprattutto temerari. Banalità. Se i primi arrivati cadevano spesso era perché avevano poca esperienza; vero che purtroppo nomi famosi come quelli di Katoh, Wakai, Tomizawa sono scomparsi nell’ultimo decennio, Nagai nel ’95 in SBK. Ma non è vero che osassero più degli altri. Penso invece che la cultura giapponese che privilegia il gruppo non incoraggia l’individualismo, e poco si adatta a far maturare con equilibrio un giovane pilota. Non è facile, per un giapponese. E le numerose eccezioni hanno faticato anche per acclimatarsi fuori dal loro Paese. In comune, i piloti giapponesi hanno forte volontà, pazienza, disciplina, capacità di soffrire.