Jorge Lorenzo: "Devo tutto a mio padre"

Jorge Lorenzo: "Devo tutto a mio padre"
L'autobiografia di Andre Agassi, intitolata Open, ha colpito anche Jorge Lorenzo. Lo abbiamo intervistato sui temi psicologici e non, sviscerati dal fuoriclasse americano, legati all'agonismo e ai rapporti con gli altri | G. Zamagni
8 maggio 2013


Andre Agassi è stato un grande giocatore: ha conquistato otto tornei del Grande Slam ed è stato a lungo numero uno del tennis mondiale. Estroverso, fuori da ogni schema, Andre ha poi fondato una sua scuola e ha scritto un'autobiografia – Open – che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Un libro bello, avvincente, interessante, con un sacco di spunti che fanno riflettere, adatti a ogni sportivo e, nello specifico, ai piloti. Ne abbiamo parlato con Jorge Lorenzo, anche lui colpito da questa biografia, e, insieme, abbiamo commentato alcune parti particolarmente significative.

 

Lorenzo, Agassi scrive: “Gioco a tennis per vivere, anche se odio il tennis, lo odio di una passione oscura e segreta, l’ho sempre odiato”. Anche tu, che come Agassi hai avuto un padre ossessivo per lo sport, odi le moto?
«No, non è così: non odio le moto, non odio le gare. Per me questo non è un lavoro, è una fortuna essere un pilota! In più, se sei competitivo, se corri in MotoGP, hai vinto gare e titoli mondiali, non lo puoi odiare. Ho tutto quello che voglio: successo, faccio sport, guadagno bene, sono famoso. Non posso pretendere di più. Naturalmente nessun lavoro è perfetto, anche nel nostro ci sono i lati negativi, come gli infortuni. O la pressione che subisci: non è una bella sensazione, soprattutto il giorno della gara. Ma a parte questi due aspetti, il motociclismo è fantastico! Senza mio padre non sarei qui, ma è sicuro che lui era troppo avanti rispetto ai papà degli altri piloti: lui è un eccezionale professore di motociclismo, sapeva esattamente come farmi migliorare in ogni allenamento. Per me è stata una fortuna, anche se mio padre è esigente, ha un carattere duro, crede nella disciplina. Quando sei ragazzino non capisci, a volte alla domenica preferiresti andare a giocare a calcio con gli amici, invece che allenarti, fare motocross. E non lo facevi per divertimento, ma sempre con il cronometro in mano: è dura quando hai 5 o 10 o 13 anni. Diciamo che al 50% ti piace tantissimo e al 50% sei sempre in tensione per provare a essere più veloce».


A proposito di questo argomento, ma non c’entra con la biografia di Agassi; secondo te i papà dovrebbero stare fuori dai circuiti, come succede al Barcellona calcio che impone, come regola, che i genitori dei bambini che vengono selezionati per la scuola non possono entrare al campo.
«Non si può generalizzare, perché ognuno ha il suo carattere, la sua personalità. Ma, tutto sommato, non è una regola sbagliata. Con mio padre avevo tante discussioni e qualche volta non ero completamente sereno; siamo due persone con un carattere forte e io ho bisogno di un ambiente più rilassato: per questo motivo mio babbo è rimasto fuori dal circuito quando ho iniziato la mia carriera».


Secondo Agassi: “Il tennis è lo sport in cui parli da solo. Nel tennis sei faccia a faccia con il nemico (…) ma non parli con lui o qualcun altro”; è così anche nelle moto?
«E’ un po’ diverso. Io non parlo mai da solo e se metti un microfono nel casco mentre disputo una gara non senti nemmeno una parola. Quando sono in sella penso, per esempio, alla fatica che faccio per seguire un avversario, o che devo spingere di più per andare via, penso che la moto, in quella curva, si chiude davanti. Talvolta sei così concentrato che sei come in “trance”, ipnotizzato e solo quando scendi dalla moto ripensi a quello che hai fatto».


Scrive Agassi: “Vincere non cambia niente (…) Anzi, adesso che ho vinto uno slam so (…) che una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta (…)”.
«Sì, a volte provi questa sensazione: da un certo risultato ti aspettavi più felicità. L’importante è sempre guardare avanti, ma imparare anche a vivere e a sfruttare al massimo i momenti belli, altrimenti non ha senso lottare, lavorare duro ogni giorno, essere rigorosi, se poi non ti gusti i successi. Per questo cerco di godermi di più le vittorie: anche per me, fino a 3 anni fa, il dolore per una sconfitta era enorme, ma ho capito che bisogna metabolizzarla, pensare che se non ce l’hai fatta oggi ce la puoi fare domani».

 

La copertina le libro "Open" di Andre Agassi
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Agassi: “Mi hanno chiesto spesso com’è questa vita da tennista, e non ho trovato mai la parola giusta per descriverla. Ma adesso mi sta venendo in mente. E’ soprattutto, uno straziante, eccitante, orribile, sorprendente vortice. Esercita perfino una leggera forza centrifuga, che combatto da trent’anni”; com’è la vita da pilota?
«E’ un continuo alternarsi di emozioni differenti: da una parte è una vita abitudinaria, perché prendi gli stessi voli, vedi gli stessi circuiti, dormi sempre negli stessi hotel, ma dall’altra si succedono tantissime cose differenti, conosci sempre gente nuova, le situazioni cambiano continuamente, la tua vita è piena di emozioni belle e brutte. Questo vortice, come lo chiama Agassi, a volte ti fa pensare di non correre più, vorresti essere “libero” per non subire più questa pressione, questa ansia di vincere a tutti i costi. Tutto questo, però, ti rende anche felice: è questa la contraddizione».

 
E’ vero che quando vinci: “diventi più forte, simpatico, bello. Tutti vogliono conoscerti, anche persone famose che non ti hanno mai considerato: lo trovo surreale, poi assolutamente normale (…)”.
«La gente vuole stare vicino a chi è famoso. Però è vero - e strano – che se fai determinate cose quando sei il numero 20 del tuo mondo, non interessa a nessuno, mentre se fai le stesse cose da numero uno vengono copiate dagli altri, anche se le fai male. Ma è umano, siamo fatti così: quando vediamo uno che ha successo lo vediamo più bello, più alto, più carismatico…».


Agassi: “Se fai della perfezione il tuo obiettivo ultimo, sai che succede? Insegui qualcosa che non esiste”; ti è mai capitato di perdere un GP per aver ricercato la perfezione?
«Credo sia giusto ricercare la perfezione: solo così puoi migliorare, altrimenti rimani sempre allo stesso livello. Questa ricerca, però, ti rende mentalmente inquieto e, a volte, ti frena: nel 2009, a Barcellona (Lorenzo venne superato da Rossi all’ultima curva, NDA) nelle ultime due curve ho pensato più a essere perfetto che veloce e Valentino mi ha battuto».


Secondo Agassi “L’agitazione è una cosa buffa. A volte ti fa correre al bagno. Altre volte ti fa sentire arrapato. In certi giorni ti fa ridere e non vedi l’ora di batterti. Decidere che tipo di agitazione hai quel giorno è la prima cosa da fare quando devi scendere in campo. Capire la tua agitazione, decifrare ciò che ti dice il tuo stato mentale e fisico è il primo passo per controllarla e farla lavorare per te”. E’ vero che esistono diversi tipi di agitazione ed è fondamentale riuscire a controllarla?
«Per me non cambia, è più o meno sempre la stessa. Normalmente sono una persona che scherza molto, ma quando sono in tensione non scherzo più, sono molto concentrato: sento qualcosa nello stomaco. Cerco di rendere positiva la mia agitazione: se non ci riesci, consumi troppa energia».


Continua Agassi: “Per giocare a tennis, intendo circondarmi di più gente possibile fuori dal campo (…) Ne ho bisogno per la loro compagnia (…) sono il mio equipaggio, ma sono anche i miei guru, il mio pannello di esperti. Li studio e prendo qualcosa da ognuno”. Anche per un pilota è fondamentale avere tanta gente attorno?
«Quando sei all’inizio della carriera e non guadagni soldi, non puoi avere tante persone intorno, ma quando cominci ad avere uno stipendio, allora ci vuole un buon manager che trovi gli sponsor e firmi i contratti, perché devi sfruttare al massimo la tua carriera; ci vuole un buon ufficio stampa; ci vuole un bravo preparatore fisico. Insomma, devi avere al tuo fianco una serie di persone che ti tolgono i problemi e ti fanno migliorare in tutti i sensi. Ognuno ti trasmette qualcosa».


Agassi afferma di “ricordare tutti i 1000 incontri disputati”. Ricordi tutti i suoi 181 GP?
«Fino a 4-5 anni fa sì, adesso diciamo che mi ricordo l’80-85% delle gare: quelle più lontane nel tempo me le sono dimenticate».

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