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La telefonata parte proprio dai record del campione bergamasco: quindici titoli mondiali, 123 vittorie. Valentino si è fermato ed era uno di quelli che sulla carta potevano superarlo. Primati imbattuti: Ago non nasconde che questo continua a fargli piacere.
“Sarei bugiardo se dicessi il contrario. Come hai piacere di conquistare un primato come fai ad avere il piacere di perderlo? Ma non ne faccio una malattia. A quelli che erano lì vicino a superare i mei numeri ho sempre detto ‘facciamo una bella festa quando li battete’. E comunque non piango: i primati, lo ripeto, fanno piacere”.
Mentre il tempo passa, sembra che diventi sempre più difficile battere i tuoi record. Pare anche a te? E se è così, perché succede?
“Sì, perché innanzitutto ok, si comincia presto, Valentino a 16 anni. Lui ne aveva la possibilità… poi ha cambiato casacca e ha perso il ritmo. Fosse rimasto con la Honda in MotoGP, dici? Sì con la Honda per lui sarebbe stato più facile e lì mi è andata di culo… Marc Marquez, anche lui era destinato a questo, poi per la grande sfortuna ed altro già detto… Marc però è ancora giovane e potrebbe ancora attaccare i miei primati…”.
La mia sensazione è che oggi lo stress sia maggiore e che la MotoGP logori il pilota. Ai tuoi tempi certo c’era tanto pericolo, la fatica di correre gare lunghissime, e le moto erano muscolari. Però oggi la top class mi sembra ancora più stressante: tante ore di impegno ogni giorno, in gara e fuori, tantissimo lavoro da fare con una serie di specialisti, sulla moto e sulla persona. Tu che ne pensi?
“Questo non lo so, anche ai nostri tempi la tensione non era bassa. Potevi morire facilmente, io partivo per la gara al TT e magari il giorno prima erano morti tre piloti. Dovevo avere la forza e la capacità di chiudere la mente. Lo stress c’era anche allora: pensa che facevo fatica a deglutire quando dovevo vincere una gara. Noi purtroppo potevamo morire, Marquez è caduto 144 volte e pensava ‘non mi faccio mai niente’… Oggi non hanno quel pensiero che avevamo noi, che il sabato magari era morto Bill Ivy e la domenica partivo con la sua corona di fiori al mio fianco. Oggi i piloti li vedi poco, stanno chiusi nei loro motorhome, ma lo stress è quello di sempre, vuoi e devi vincere”.
Dico spesso che tu sei stato il primo vero professionista della storia della moto: il primo a curare fisico, alimentazione, sonno, la moto, gli sponsor. Tutto. Non ti pare che tutto adesso sia ancora più esasperato? Che siano tanti i piloti che cedono mentalmente?
“Non siamo tutti uguali, ragioniamo diversamente, abbiamo un diverso modo di vivere le cose. Io ho iniziato a lavorare da professionista perché ho capito che avevo delle responsabilità, che c’era una casa che voleva vincere e si affidava a me, e anche il pubblico si aspettava quello. Ero teso perché sentivo questa responsabilità. Lo vedi anche oggi: con molti piloti di prima fila non riesci a fare l’intervista, con l’ultimo è più facile. Anch’io mi allenavo. Forse non era tutto così pubblicizzato e c’erano meno possibilità economiche; oggi anche chi è indietro ha i mezzi per il preparatore eccetera, tutti possono permettersi di prepararsi al meglio…”.
Di tutti i record che detieni, quale il primato più importante per te?
“Naturalmente è il numero dei titoli, quel 15 è rimasto impresso, dappertutto. Mi chiamano e mi definiscono il quindici volte…"
Lo provoco: e Toni Bou, allora, che ne ha vinti 29? Mino se la ride.
“Con quel cavolo di trial? (non dice proprio ‘cavolo’ n.d.r.) È una battuta, sia chiaro, ti dirò che mi emoziona moltissimo nel vederlo in equilibrio sulle rocce, che se cade si rompe la testa…”
A parte gli scherzi, io ti ricordo all’hotel Abner’s di Riccione, inizio anni Settanta, inseguito da centinaia di fans. Ricordo che pensai: solo il papa è più famoso di lui. Ti provoco: pensa cosa combineresti oggi, saresti più famoso, più ricco, più longevo…
“Io ho iniziato a 18 anni e mezzo. Tu scherzi ma è vero: sarei molto più ricco, sarei ancora più popolare perché oggi la fortuna è che ti vedono nello stesso momento in tutto il mondo. Immaginati: il pilota italiano con moto italiana che vinceva così tanto… ecco perché ho sempre voluto il casco tricolore… Oggi, con la comunicazione che c’è, Ago e la moto italiana sarebbero la dimostrazione che la tecnologia italiana vince in tutto il mondo…”.
Tu sorridevi tanto ma sembravi molto teso, serioso, impegnato in una faccenda complessa. Invidi un po’ la leggerezza di Vale?
“E’ solo questione di tempi e di carattere. Allora eravamo tutti più chiusi e più formali, noi ci vergognavano a fare le cose che invece Valentino ha fatto e il pubblico ha gradito. Più chiusi. Io mi ricordo che venivo a Milano magari a cena al ristorante e nascondevo la macchina, avevo la Giulietta Sprint che all’epoca era bellissima. Ti rendi conto? Eravamo più riservati, e i ragazzi di oggi non sono più così”.
Valentino, diversamente da te, ha continuato a correre anche quando ha smesso di vincere, fino a 42 anni. Questione di passione?
“No, io ero forse più innamorato di lui, della moto. Questione di carattere: quando ho visto che non vincevo più come prima, e aggiungo che ancora qualcosa vincevo, mi sentivo triste. Forse anche per orgoglio. E poi hanno cominciato ad andar male tante cose, rotture del motore, gomme. Prima girava tutto bene… forse, mi dicevo, è un segno: ho avuto tanto, l’ho scampata, forse è un avvertimento. Se Dio mi ha dato tanto, forse adesso mi dice: accontentati”.
Ora anche Rossi sarà un team manager. A te ha dato soddisfazione passare da pilota a proprietario di un team?
“In realtà non ero tanto convinto, fu Gian Carlo Spezia della Philip Morris a convincermi. La Yamaha aveva problemi, in Europa doveva cambiare squadra ogni tre o quattro mesi, i ragazzi stavano male lontano da casa; poi avevano i camion qua, organizzare era difficile e costoso. Allora proposi: voi mi date le moto e tre o quattro ingegneri e io penso a tutto, squadra, uomini, sede, mezzi, cuoco e hospitality. Gli sponsor erano miei. Poi più avanti hanno capito che c’era la possibilità di gestirli loro, gli sponsor. Io gli ho aperto la strada”.
E anche Valentino Rossi pensa di correre con le auto. Anche lui: tu formula Aurora e ruote scoperte, lui concentrandosi sui prototipi nelle gare di endurance.
“Credo che correre con le auto gli serva come è successo a me: un aiuto nello stacco. Se ami il tuo mestiere lasci il tuo amore, che non avrai mai più, quindi è dura. Lui ha tirato tanto prima di smettere, perché smettere non è mai facile…”.
Chiudo con gli auguri a Mino e famiglia. Adesso ‘Buone feste’, e poi il prossimo giugno andrà celebrato come si deve l’ottantesimo compleanno…
“Non dirmi niente - ridacchia il grande Ago - già mi stanno invitando a un mucchio di feste, ma il punto è che non ho nessuna voglia di festeggiare…”