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29 anni. Tanti ne sono passati dalla prima vittoria conquistata in un GP motociclistico da un disco in carbonio, alla storica affermazione di domenica 10 settembre, a Misano, ad opera di Marc Márquez: la prima ottenuta con impianto frenante in carbonio in una gara bagnata.
Era il 1988, e gli impianti frenanti con dischi in carbonio facevano le loro prime, timide apparizioni sulle moto. Potentissimi, leggerissimi – allora lo standard sull’asciutto erano i dischi in ghisa – avevano però problemi… caratteriali davvero importanti. Lavoravano solo a temperature elevatissime – non abbiamo dati ufficiali, ma si parlava di un range operativo compreso fra i 400 e i 600° – tanto da richiedere obbligatoriamente le cartelle copridisco, a meno di caldi torridi, per evitare che si raffreddassero da una curva all’altra, lasciando il pilota completamente senza freni.
A dischi freddi, l’effetto frenante era pressoché nullo. I piloti, soprattutto in partenza e durante il primo giro, avevano riferimenti delle staccate completamente diversi da quelli che potevano usare una volta portati a regime i freni. E sulle piste con rettilinei lunghi, per tutto il corso della gara era necessario anticipare la frenata di qualche decina di metri, perché, come riportavano allora i piloti della 500, per un paio di secondi non succedeva assolutamente nulla, poi la potenza frenante arrivava di botto.
Era il 1988, dicevamo. Wayne Rainey era al debutto sulla Yamaha YZR 500 del team Roberts. Le 500 erano brutte bestie, all’epoca, e la vulgata della classe regina prevedeva che i debuttanti della categoria impiegassero almeno una stagione prima di poter puntare alla vittoria. Una stagione impiegata a prendere le misure, con diverse visite alla Clinica Mobile a mo’ di punteggiatura fra una lezione appresa e l’altra. Il team Roberts, quell’anno, introdusse diverse novità. Una fu proprio l’idea che un debuttante potesse giocarsela con i big, perché Rainey e Magee non ci misero molto ad infastidire i vari Lawson, Gardner e Mamola. L’altra furono proprio i freni in carbonio, con cui Rainey a Donington, dodicesima gara della stagione, conquistò la sua prima vittoria.
Negli anni successivi i dischi in carbonio diventarono uno standard. Troppo superiori le loro prestazioni, troppa la differenza in termini di peso sul cerchio anteriore (masse non sospese) per pensare di vincere senza. Ma pur con piccoli miglioramenti, restavano le idiosincrasie per le basse temperature e per le condizioni di bagnato, tanto che diversi team provarono a sperimentare soluzioni miste – un disco in carbonio, rigorosamente protetto da una cartella, per mantenere la temperatura vicina a quella ideale e uno in acciaio – quando le condizioni non erano quelle ottimali.
Lo sviluppo dei dischi in carbonio è proseguito su due fronti, fra Motomondiale e Superbike, almeno finché in quest’ultima categoria non vennero vietati per contenere i costi. Uno sviluppo che ha reso sempre più performanti gli impianti, progressivamente sempre più sollecitati con l’aumento dei pesi minimi delle moto. All’epoca del debutto, nel 1988, il peso minimo delle 500 era di soli 115 kg, che venne innalzati a 130 due anni dopo in nome della sicurezza – l’idea era quella di rendere le moto meno nervose in uscita di curva, anche se poi, citando Doohan, “in staccata non si fermano più”.
Con l’arrivo della MotoGP, nel 2002, i pesi iniziarono a crescere. I 145 kg iniziali diventarono 148 due anni dopo, poi 150 nel 2012, 157 nel 2013 e 160 l’anno successivo. Solo dopo sono scesi progressivamente a 158 e 157 kg, nelle ultime due stagioni, proprio perché con l’aumento delle prestazioni dei motori iniziavano ad esserci problemi nel rallentare le moto in fondo ai rettilinei più lunghi.
Facciamo un passo indietro: nel 2000, due anni prima dell’arrivo del "quattro tempi", Brembo – diventata nel frattempo un monofornitore de facto per la classe regina, pur con qualche sporadica presenza di Nissin – ha introdotto il suo primo disco flottante in carbonio, con un diametro nel frattempo cresciuto fino a raggiungere i 320 mm.
Nel frattempo, con l’evoluzione dei materiali le temperature d’esercizio minime continuano a scendere, rendendo i dischi sempre meno diversi nel comportamento e nel feeling rispetto alle unità in acciaio: le cartelle copridisco, praticamente obbligatorie negli anni 80 e 90, si vedono molto meno, spuntando praticamente solo in caso di temperature particolarmente basse o clima umido. La temperatura minima d’esercizio è scesa fino ai 200°C, rendendo i dischi in carbonio usufruibili quasi in ogni condizione – l’ultimo tabù, prima di Misano 2017, restava il bagnato.
Nel 2014 arriva la pista maggiorata, soluzione che va ad inserirsi fra le due “tradizionali” che la Casa bergamasca utilizza da qualche tempo. Con il crescere delle velocità e dei pesi minimi delle MotoGP, grossomodo in coincidenza con l’arrivo delle 1000 nel 2012, Brembo è corsa ai ripari: le moto sono sempre più difficili da fermare nelle piste più veloci – Motegi la più critica, ma anche Barcellona si fa dare del lei – e Brembo introduce i dischi da 340 mm, con l’obbligo regolamentare di usarli a Motegi e la facoltà di utilizzarli al Catalunya e a Sepang.
Nel 2014 quindi l’uso dei dischi viene liberalizzato, consentendo alle squadre di utilizzare indifferentemente le tre tipologie di disco (320 standard, 320 high mass, che aumenta dell’80% il volume della fascia frenante, 340 high mass che aggiunge il 120%) secondo le preferenze e le esigenze del pilota. Tranne che a Motegi, dove per questioni di sicurezza è necessario affidarsi ai dischi più performanti.
C’è voluto il Gran Premio di Misano perché Márquez portasse al successo per la prima volta i dischi in carbonio sul bagnato, ma anche se non ci abbiamo fatto troppo caso l’avvicinamento alla prestazione vincente è stato abbastanza graduale – per capirci, il colpaccio era già stato sfiorato, perché lo sviluppo di Brembo ha continuato ad evolvere i materiali utilizzati aumentando sempre di più la versatilità dell’impianto.
La prima prestazione da podio si è vista proprio a Misano, due anni fa, in quel Gran Premio flag-to-flag del 2015 in cui la pioggia arrivò a rimescolare le carte. Quel GP in cui Rossi e Lorenzo sbagliarono clamorosamente la tempistica del rientro ai box, e ne approfittarono il solito Márquez ma anche Bradley Smith, che fidandosi delle sue doti sul bagnato non cambiò moto ed arrivò al traguardo con i dischi in carbonio in seconda posizione.
Un risultato che ha convinto Brembo ad intensificare i test sul bagnato fin ad arrivare a Sepang 2016, dove la classica variabilità estrema del meteo ha mandato in confusione più di un team. Márquez decide di provare i dischi in carbonio durante le prove, trovando benefici senza problemi di temperatura; purtroppo in gara si stende mentre è quarto, e dovrà aspettare un anno ancora per dimostrare la validità della scelta.
In occasione del nostro test sulla Brembo 19RCS CorsaCorta all’Estoril, la scorsa primavera, avevamo provato a chiedere a Roberto Pellegrini quanto fossimo lontani da sbocchi sulla produzione di serie per gli impianti in carbonio, magari in quella declinazione carboceramica ormai affermata sulle supercar che addolcisce un po’ il… brutto carattere delle soluzioni carbon-carbon. Pur spiegandoci come le soluzioni auto fossero difficilmente applicabili alle moto per la naturale esposizione dei dischi (che invece sulle quattro ruote se ne stanno belli protetti all’interno dei cerchi) che mal si concilia con la fragilità di quelle unità, il sorriso furbo del tecnico Brembo ci ha fatto immaginare che forse qualche innovazione anche nel settore stradale non sia troppo lontana. E forse, ma solo forse, la vittoria di Marc Márquez a Misano l’ha avvicinata ancora un po’.