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Qualsiasi cosa succeda nel paddock lui la sa. E se anche non la sa, ma accade molto raramente, non solo finge di conoscere già quella determinata notizia, ma te la gira in modo che sembra te l’abbia data lui. “Belin, te l’avevo detto” è una delle tante frasi celebri di Carlo Pernat, genovese e genoano purosangue, un uomo molto intelligente, simpatico, sempre con la battuta pronta, capace di adattarsi a qualsiasi situazione. In sala stampa, nella corsia dei box, tra gli addetti ai lavori – italiani o stranieri – è un vero e proprio punto di riferimento: “Belin, te l’avevo detto”…
Nome e cognome?
«Carlo Pernat».
Nato dove e quando?
«A Genova, naturalmente, il 9 agosto 1948».
Sampdoriano?
«Sampdoriano sarai tu… E so lo dici ancora, finiamo subito l’intervista!».
Che scuola hai fatto?
«Come tutti, asilo, elementari e medie. Poi ragioneria, quindi economia e commercio».
Ti ricordi la prima gara di moto che hai visto nella tua vita?
«Nel 1974, una gara di motocross, a Lombardore. Nel 1979, invece, la mia prima gara “vissuta”, sempre nel motocross, con Dario Nani a Tampere, in Finlandia, quando Dario si stampò a tre giri dalla fine contro uno dei tanti alberi della foresta finlandese…».
Come sei arrivato alle corse di moto, al motocross prima e poi al motomondiale?
«Una storia strana. Lavoravo alla Piaggio, nel marketing, quando arrivò un nuovo amministratore delegato, l’ingegnere Sguazzini, che mi propose di seguire lo sport. Accettai subito e fui mandato ad Arcore, alla Gilera, dove feci il responsabile organizzativo della squadra corse. Feci anche altre cose, perché nello “sport Piaggio” era compreso anche il ciclismo: feci il giro d’Italia con la Bianchi come PR, assieme a Felice Gimondi che era il direttore sportivo. Poi, nel 1980, mi mandarono in Ferrari a seguire la sponsorizzazione Vespa: era il primo anno di Villeneuve e l’ultimo di Sheckter con la T5, macchina poco competitiva. Anche in quel caso il mio ruolo era di PR, ma ero comunque a contatto con tutti i vertici Ferrari: mi sono divertito, ho fatto tanta esperienza, un sacco di conoscenze. Con il biglietto da visita della Piaggio era facile: venivi considerato una cima anche se non lo eri… Ho seguito anche il calcio, la Juventus nel 1983, per ritornare al cross fino al 1984 quando mi arrivò l’offerta dalla Cagiva, da Claudio Castiglioni, per fare il responsabile dell’attività sportiva. Ci pensai un po’, perché in Piaggio ero dirigente: ma decisi di andarmene, una cosa abbastanza strana, per un contratto di due anni con Castiglioni. Lì facevo tutto: cross, Parigi-Dakar, velocità. La prima gara di motomondiale la feci nel 1987, quando la Cagiva era ancora gestita da Battà, piloti Didier De Radigues e Raymon Roche. Nel 1988 presi in mano tutto io, diventai direttore sportivo: il “mio” primo pilota fu Randy Mamola. Andai avanti fino ai primi anni Novanta quando fui chiamato, assieme a Jan Witteveen, da Ivano Beggio per gestire i programmi sportivi dell’Aprilia, ruolo che ricoprii fino al 1997. Poi andai al Genoa, come responsabile marketing e comunicazione, ma non mi piaceva: il calcio era abbastanza “schifoso, marcio”. Rientrai nelle moto facendo la seconda voce alla Rai assieme a Federico Urban e a fine 1999 mi chiamò Loris Capirossi: voleva essere gestito da me. Accettai: è stato un sodalizio che è durato a lungo. Nel 2000 feci anche il responsabile attività sportive della Gilera: con l’ingegnere Masut mettemmo in piedi l’operazione, assunsi Gianpiero Sacchi per gestire il ritorno del marchio Derbi».
Adesso cosa fai esattamente?
«Diciamo il manager di piloti».
Cosa fa esattamente un manager e quanto è difficile farlo?
«Devi avere le caratteristiche giuste: prima di tutto, è un lavoro psicologico. Bisogna essere sempre tranquilli, mettere il pilota nelle condizioni migliori: se il pilota non è sereno, non si diverte e di conseguenza non rende. Bisogna gestire i contratti, la stampa, le sponsorizzazioni, trovargli una moto. Devi avere una certa esperienza sia di contratti, di pubbliche relazioni, di marketing, di pubblicità: il “vero” manager deve conoscere tutti questi aspetti, anche perché quando vai a trattare con uno sponsor devi sapere parlare un certo tipo di linguaggio, molto più complicato rispetto a 15 anni fa. Con il tempo, con i risultati, con il tuo modo di essere ti costruisci i rapporti con le persone, con la stampa, con l’ambiente in generale. Insomma, è un lavoro abbastanza articolato».
Come avviene una trattativa, in linea di massima?
«Se gestisci un pilota bravo, spesso è la Casa che ti cerca: se è così, il lavoro è naturalmente molto più semplice, perché hai tu il coltello dalla parte del manico. Diverso quando sei tu che proponi: devi conoscere chi decide, saltare i “marescialli” per non perdere tempo, fai certi discorsi mai facili, perché a volte “vendi” arrosto, altre anche un po’ di fumo… Devi avere una certa capacità di convinzione, “intortare” un po’ le persone per arrivare a dei contratti che io ho sempre fatto pluriennali: per me un pilota deve avere un accordo minimo di due anni con una Casa».
Hai fatto molto bene sia il team manager che il manager: proviamo a confrontare i due lavori.
«Sicuramente fare il team manager è più affascinante, perché decidi in prima persona. Gestisci meccanici, piloti, strategie: è un lavoro avvincente e bellissimo. Anche fare il manager è interessante e piacevole, ma più riduttivo: lavori tanto, ma non hai dietro un gruppo di persone. Quando gestivo le squadre avevo un bellissimo rapporto con tutti quelli che lavoravano con me, perché ci mettevo la faccia e gli facevo guadagnare dei bei soldi: se tratti bene il meccanico, se la squadra è con te, puoi ottenere certe cose».
Svelaci un retroscena sia da team manager sia da manager.
«Una divertente nel cross. 1985, ultima gara del campionato in Argentina, noi Cagiva ci giocavamo il mondiale con la Honda. Io feci arrivare la nostra benzina dall’Agip, che feci sdoganare tranquillamente, mentre feci bloccare quella della Honda, perché chi usava il carburante locale rompeva i motori. Mi accusarono, ma andammo davanti alla commissione della FIM: offrii la mia benzina a 120 dollari al litro. La Honda, schifata, disse di no: le loro moto si ruppero e noi vincemmo il mondiale…».
E come manager?
«Beh, forse quando feci passare Capirossi come un fine collaudatore: alla Ducati fu preso anche per questo».
Hai lavorato con tantissimi campioni: io ti faccio qualche nome e tu dici quello che vuoi. Ok?
«Va bene».
Loris Reggiani.
«E’ il pilota più umano che abbia mai incontrato. Ricordo sempre questo aneddoto: generalmente il pilota odia il compagno di squadra. Ma quando Jean Philippe Ruggia vinse nel 1993 la sua prima gara con l’Aprilia, Loris si commesse per la felicità del successo del suo compagno. Di Loris ho un ricordo stupendo, sia come pilota, perché era uno forte davvero, sia come persona: faceva gruppo, era un piacere lavorare con lui».
Alex Gramigni.
«Con lui vinsi il primo mondiale come direttore sportivo (1992, Aprilia 125, NDA): Alex è un toscano “fumantino”, molto “incazzoso”, ma leale, una qualità che mi colpì molto. Poi sbagliò qualcosa nella sua gestione: era una bella manetta, ma si credeva anche collaudatore».
Max Biaggi.
«Da zero a cento! Come pilota tanto di cappello – anche a lui devo molto, vincemmo insieme tre mondiali (1994, 1995, 1996, Aprilia 250, NDA): onestamente mi aiutò nella mia carriera -, dal punto di vista umano una persona molto difficile, egoista, probabilmente dettato dalle sue vicende personali. Molto diffidente, che poi è la caratteristica più negativa di Max: così si è fatto, senza alcun bisogno, troppi nemici».
Loris Capirossi.
«Di lui posso solo parlare bene. E’ una persona molto umana, bravissima, un gran pilota, con un talento straordinario: il giro secco di Capirossi è famoso ancora oggi. Ha vinto meno di quanto meritasse, ci stava anche un titolo nella MotoGP: nel 2006, l’avrebbe ottenuto senza l’incidente di Barcellona (venne travolto in partenza dal compagno di squadra Sete Gibernau, perdendo poi molti punti importanti a causa delle sue condizioni fisiche, NDA). Con lui i contratti li facevo con una stretta di mano: non mi è mai successo con nessun altro. E se dovevo avere 10 lire, me ne andava anche 11: per me è come un fratello».
Valentino Rossi.
«Eccezionale. Mi ricordo che quando gli feci il primo contratto, rimasi colpito dalla simpatia e dalla spontaneità. Era già un bel “tirapacchi” (ride, NDA): nel 1997, quando conquistò il titolo della 125, era un grande fan di Jacques Villeneuve e lo voleva conoscere a tutti i costi, anche perché in quel periodo Valentino era “anti-ferrarista”, anche se adesso non lo vuole dire. Durante una premiazione al Motor Show di Bologna ero riuscito a organizzare un incontro tra Rossi e Villeneuve, ma al momento buono, con presenti tutti i giornalisti del mondo, lui “scappò” per andare a ballare, facendomi fare una brutta figura… E’ un grandissimo».
Marco Simoncelli.
«Tra tutti, era quello più vero e spontaneo, quasi ingenuo nella sua semplicità: non credo incontrerò mai più un altro pilota così. Per me era il migliore».
Dopo quello che è successo a Marco, hai mai pensato di smettere?
«Altroché: ci ho pensato per quattro mesi. In quel periodo, tra novembre e dicembre, fui contattato da Cal Crutchlow, che voleva che gli facessi da manager, ma gli dissi di no, perché volevo smettere. Poi, a gennaio, si riaccese la scintilla: ne parlai anche con Paolo (il papà di Marco, NDA) e pure lui mi convinse a ricominciare. Ma è diverso da prima, perché quando vedi morire un amico inevitabilmente qualcosa ti lascia dentro: con Marco mi divertivo veramente».
C’è un pilota che avresti voluto gestire – come team manager o come manager -, senza però riuscirci?
«Kevin Schwantz: ci avevo anche provato. In tempi più recenti, mi sarebbe piaciuto lavorare con Jorge Lorenzo, ma per alcune incomprensioni l’operazione non si è conclusa. Sono convinto che Jorge sia un ragazzo leale e sincero, forse solo un po’ “costruito”: in generale è uno che mi piace».
Beh, mi viene in mente anche Luca Cadalora, che avresti voluto in Aprilia nel 1996.
«Sì, successe quando l’Aprilia licenziò Biaggi: facemmo provare la moto di Marcellino Lucchi (storico collaudatore Aprilia, NDA) a Luca al Mugello ad agosto. Fu entusiasta: gli diedi un contratto in bianco, poteva decidere lui la cifra dell’ingaggio. Aspetto la risposta ancora adesso…».
Un consiglio a un ragazzo che vorrebbe fare il tuo lavoro.
«Bisogna aver fortuna: io ho avuto la fortuna di lavorare prima con le Aziende, poi con i “padroni” (Castiglioni, Beggio, NDA). Bisogna avere una gran passione e, oggi, purtroppo, essere anche disposti a investire dei soldi: quindi è ancora più difficile che ai miei tempi».
Hai un ricordo, un aneddoto sul Sachsenring, dove domenica è in programma il GP di Germania?
«Ricordo quando Alex De Angelis (uno dei piloti gestiti da Pernat, NDA) fece una bellissima gara con la Honda MotoGP del team Gresini (4° nel 2006, NDA): poteva arrivare sul podio, addirittura vincere. Ad Alex sono legato, anche lui è un bravo ragazzo, che ha vinto meno di quanto meriterebbe: fu un’emozione molto intensa».