Dietro le quinte della MotoGP: Dario Sanna

Dietro le quinte della MotoGP: Dario Sanna
Cuoco, ma non solo. Oltre a cucinare aiuta gli altri ragazzi, monta e smonta l’hospitality, guida il camion. Insomma, una vita piuttosto movimentata | G. Zamagni
18 luglio 2013

Punti chiave


Oltra ai piloti, agli ingegneri, ai tecnici, agli uomini che lavorano nel box, ci sono tante altre persone nel paddock, con ruoli molto differenti. Fondamentali sono i cuochi, chiusi nelle loro cucine per ore e ore, proprio come avviene nei veri ristoranti. La differenza è che qui tutto è “precario”, bisogna sapersi adattare alle diverse situazioni, cambiare continuamente posto dove fare la spesa. Non solo, perché un cuoco del motomondiale oltre a cucinare aiuta gli altri ragazzi, monta e smonta l’hospitality, guida il camion. Insomma, una vita piuttosto movimentata, come ci spiega Dario Sanna, da anni apprezzatissimo cuoco dell’hospitality Alpinestars: è talmente bravo che una stella Michelin gli andrebbe perfino stretta…


Nome e cognome?
«Dario Sanna».
 

Nato dove e quando?
«A Colonia, il 17 aprile 1985».


Prima gara di moto che hai visto?
«Una gara di Biaggi, con l’Aprilia 250: ero piccolo…».


Prima gara dal vivo?
«Mugello 2004, misi la mia tenda sulla collina».


Che scuola hai fatto?
«Ragioneria e poi una scuola professione per infermieri».


Come sei arrivato al motomondiale?
«Sono stato coinvolto da un amico in Honda: da un po’ di anni lo “pressavo” per poter avere una possibilità di lavoro. Ho iniziato facendo il lavapiatti, ma la gara dopo, l’aiuto cuoco scappò. Mi hanno detto: vuoi provare? Ho accettato».


Ma sapevi cucinare? Hai studiato per diventare infermiere…
«Mio papà era cuoco, io volevo fare un altro lavoro, sapendo che vita ha fatto, molto dura: ho provato a “scappare” da questa vita, ma il destino ha deciso diversamente, ha voluto che io seguissi quello che ha fatto mio papà».


Quindi adesso fai il cuoco.
«Sì, questa la mia vita. Faccio da mangiare e cerco di imparare sempre nuove cucine».


Quanto è difficile fare il cuoco nel motomondiale, senza una struttura fissa?
«La difficoltà è negli spazi ristretti, nel metodo. Una cucina fissa ti impone un modo di lavorare, hai la postazione, fai la spesa sempre dagli stessi fornitori, una clientela che ti segue: se gli piace ritornano, altrimenti vanno da un’altra parte. Qui, invece, al di fuori di qualche “habitué”, il cliente cambia gara per gara, nazione per nazione, con abitudini differenti. Per esempio: in alcuni Paesi preferiscono un mangiare più grasso, in altri fritto, in altri ancora più naturale. Per esempio, se negli Stati Uniti ti impegni per fare cose fresche, verdure, lavorazioni particolari, gli ospiti non apprezzano più di tanto, per una questione di cultura e abitudine: la mamma, da piccoli, gli dava l’hamburger e tra una pasta alla bolognese e un hamburger preferiscono nettamente quest’ultimo. Ti devi adattare: la difficoltà sta anche in questo aspetto. Ogni nazione ha la sua frutta, la sua verdura, la sua materia prima».


Il cibo, quindi, viene comprato sul posto, non viene portato dall’Italia?
«Sì, a parte qualcosa di particolare, tipo la bresaola, il grana, la pasta: insomma, quei cibi che non trovi in giro facilmente, o che trovi di scarsa qualità».


Quanti coperti fai al giorno?
«Dipende da gara a gara: in alcune, in Italia e in Spagna, possiamo fare 200 persone nelle due “sale”, in altre, come in Germania, ne fai un’ottantina».


Quante ore lavori al giorno?
«Si arriva anche a 15. Magari in cucina ne fai 12, ma poi bisogna pulire, controllare l’hospitality, la manutenzione ordinaria ti porta via tempo».


Nell’hospitality Alpinestars transitano tanti piloti; raccontaci qualche particolarità?
«I piloti sono abbastanza semplici. Seguono la loro dieta, mangiano cibi sani e leggeri, facili da preparare. I problemi, se così si possono chiamare, ci sono con i giornalisti, i fotografi, i personaggi famosi, gli ospiti in generale che, magari, hanno gusti particolari: magari prepari tre primi e tre secondi, ti viene chiesto qualcos’altro… I piloti sono tutti bravi, a parte magari qualcuno che ti chiedeva, che so, 98 grammi di pasta!».


Urca, chi è?
«Non te lo dico».


Ma è un pilota che corre ancora o ha smesso?
«E’ un pilota che ha cambiato campionato (di più Dario non dice, NDA)».


Ma uno che fa il tuo lavoro, riesce a vedere le moto, cosa succede in pista?
«Guarda, succede a volte che alla partenza della MotoGP non so nemmeno quale sia lo schieramento di partenza: può capitare che, per tutta la settimana, sento solo il rumore delle moto. In altre riesco a vedere la partenza, a seguire qualche giro dai box».


Riesci ad avere un qualche tipo di rapporto con i piloti?
«Sì. Io non tifo per nessuno, mi piacciono tutti indistintamente, in alcuni casi sono cresciuto insieme a loro, perché faccio questo lavoro da sette anni. Qualsiasi pilota incontro sono felice, come se fossi un suo tifoso: ho una grande rispetto».


Domenica si corre a Laguna Seca. Qui in Europa avete una struttura stabile, è sempre quella, che non c’è nelle gare extra-europee: cosa cambia per uno che fa il cuoco?
«Per i GP fuori dall’Europa si prepara una cassa con due fuochi da campeggio e quattro padelle. Bisogna adattarsi alla situazione: in alcune gare ci sono dei box, tipo quelli delle moto, all’interno dei quale si allestisce una cucina, in altri c’è solo una tenda, in altri ancora ci sono già delle strutture predisposte per accogliere la cucina. Comunque sia, rispetto all’Europa, gli spazi sono sempre ridotti, hai un solo frigorifero, devi improvvisare. Lì il cuoco non ha aiutanti, non c’è chi lava i piatti, devi andare due volte al giorno a fare la spesa, devi arrangiarti e organizzarti da solo. Nonostante questo, anche fuori dall’Europa cerchiamo di dare un servizio tipo hospitality: proviamo a “viziare” i nostri ospiti».


Insomma, è tutto più difficile…
«Per la verità, io vengo preso dall’entusiasmo di essere all’estero: la fatica passa in secondo piano, anche se lavoro senza sosta dalla mattina alla sera. Già il fatto di essere negli Stati Uniti, “mangiato e bevuto” come si dice dalle mie parti, ripaga di tutto».


E’ un lavoro che consiglieresti a un tuo amico?
«E’ una vita dura. Adesso tanti vogliono fare il cuoco, anche per le tante trasmissioni che si vedono in TV, ma resistente soltanto chi gli piace, perché stai 15 ore in una cucina, esci esaurito. Non è per tutti. Se uno ha voglia di farlo, deve avere “fame” di imparare cose nuove, deve avere entusiasmo. Per me, fare il cuoco nel motomondiale è il lavoro più bello del mondo, perché ti permette di girare, di cucinare, guidare un camion, montare la struttura… Non è solo cucinare, ma una infinità di cose, stare insieme a un gruppo, condividere tutto, dal dormire, al far la doccia…».

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