Dietro le quinte della MotoGP: Francesco Chionne

Dietro le quinte della MotoGP: Francesco Chionne
Fisioterapista di Dovizioso e prima di Rossi, Locatelli, Stoner e Pedrosa, Francesco Chionne no è un semplice "massaggiatore", per stare insieme a un pilota giorno e notte devi avere molte altre qualità | G. Zamagni
12 settembre 2013

Punti chiave

 Fisioterapista: un mestiere che, ultimamente, va di moda. Una figura che esiste anche nel motomondiale: fino a qualche tempo fa si andava in Clinica Mobile a fare fisioterapia – e fanno ancora così i piloti della Moto2 e della Moto3 -, oggi, quasi tutti i campioni della MotoGP ne hanno uno personale. Come Andrea Dovizioso, da alcune stagioni seguito da Francesco Chionne, che in passato ha lavorato anche con Valentino Rossi, Roberto Locatelli, Dani Pedrosa, Casey Stoner. “Per la precisione io sono un massofioterapista” puntualizza Francesco, un ragazzo che è molto di più di un “semplice” fisioterapista: per stare insieme a un pilota giorno e notte devi avere molte altre qualità. E Francesco ne ha davvero tante.


Nome e cognome?
“Francesco Chionne”


Nato dove e quando?
“Siena, 15 novembre 1974”


Che scuola hai frequentato?
“Liceo scientifico, poi una scuola per terapisti: sono fisioterapista dal 1996, operativo dall’anno successivo”.


Cosa fa un fisioterapista, in generale?
“Dal massaggio, alla riabilitazione e rieducazione. Ci sono varie figure: per esempio, fisioterapisti che si occupano di più degli aspetti neurologici, altri degli aspetti riabilitativi-meccanici, altri che lavorano prevalentemente manualmente, massaggiatori dello sport…”.


Da quando lavori nel motomondiale?
“Dal GP di Francia del 2000”.


Come ci sei arrivato?
“Nel 1999 ho conosciuto il Dottor Claudio Costa, che è stato un po’ come il mio secondo padre, l’unico medico che ho conosciuto nella mia vita, che mi ha insegnato quello che volevo fare veramente, che non è il fisioterapista, o il massoterapista, o il terapista della riabilitazione, ma è il terapista dei piloti. Significa tante cose: saper stare vicino ai piloti, capirli, condividere le loro passioni, le difficoltà, i momenti difficili della terapia, del dolore o della sofferenza. Da allora sono stato quasi sempre in Clinica Mobile, ho fatto tanta esperienza con loro, per 3-4 anni facevo sia MotoGP sia SBK: è stata la mia gavetta, con tante persone che mi hanno fatto da maestri, che mi hanno accompagnato nel mio cammino. Nel 2003 ho smesso con la SBK e ho iniziato a essere il massaggiatore – in Clinica non si va vera e propria fisioterapia, si lavora in emergenza – dei piloti, fino al 2007, quando Claudio mi ha fatto responsabile del suo gruppo della parte fisioterapica, fino al 2009, quando per motivi personali mi sono allontanato da questo ambiente, per poi tornarci nel 2010 con Andrea Dovizioso, uno dei piloti al quale ero più affezionato e dal quale riscuotevo fiducia. Ero un suo tifoso, adesso mi sento come suo fratello”.


Che differenza c’è tra lavorare in Clinica Mobile e a stretto contatto con un pilota?
“Tanta. La base del lavoro “tecnico” fondamentale è quella che si fa in Clinica: già dal mattino un pilota tende a fare delle fasi di riscaldamento attive o passive, con una seconda persona, possibilmente un terapista, che lo aiuta, lo segue, se c’è bisogno gli fa un massaggio, anche uno defaticante se ci sono dei postumi del giorno prima, una terapia manuale se c’è un’emergenza. Questo lo si fa sia in Clinica sia, diciamo, “privatamente”, con la differenza che in Clinica ti appoggi a un gruppo di persone, non solo fisioterapisti, ma anche medici, professionisti di vario genere: così è più facile risolvere un problema. Fortunatamente io sono in ottimi rapporti con la Clinica e quando ho bisogno chiedo un aiuto. Si fa anche un massaggio di “richiamo” al pomeriggio, uno defaticante alla sera e quando segui direttamente un pilota, lo fai in tutto e per tutto: avendo la fiducia di Andrea, mi occupo della sua sicurezza in generale. Quindi, controllo la tuta, se non c’è il tecnico gli do una mano con il casco, fino a preparargli la borraccia con i sali minerali descritti dal suo preparatore atletico, portargli l’acqua sulla griglia di partenza. Lavorare a stretto contatto con un pilota ti dà maggiore responsabilità: il bagaglio di esperienza della Clinica è fondamentale, devi imparare a conoscere il pilota, rispettando i suoi momenti più o meno “bui”. Questo aspetto non è facile, perché poi si ripercuote su quella “tecnica”: è importante lavorare bene, sapersi adattare immediatamente alle situazioni anomale. Senza esagerare: non devi fare “di più”. Per questo dico che non è facile e ci vuole esperienza”.

Dani Pedrosa
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Tu, in qualche modo, hai lavorato direttamente con Rossi, Stoner, e Dovizioso: puoi dirci qualcosa di loro?
“Anche con Pedrosa ho lavorato molto, anche se non proprio “direttamente” come con i tre piloti che hai citato. Al di là di Andrea, sono fiero di aver lavorato con Valentino nel 2008, un anno buono per lui e ancora più bella – non me ne voglia Rossi – è stata l’esperienza con Casey: lui si fidava di me dai tempi della Clinica, ma soprattutto è nata per la stima e la fiducia con Dovizioso che all’occorrenza mi “prestava” a Stoner. Valentino è una persona molto più solare: sotto questo aspetto è stato un po’ più facile. Con Casey non è facile ottenere il massimo per quel poco che puoi fare. Diciamo che con Rossi e Stoner è stato un lavoro diverso rispetto a quello che faccio con Dovizioso, strettamente “tecnico”: massaggio, bendaggio, fisioterapia quando c’era un problema. Non ero il loro “fratello” quando ce n’era bisogno, come invece capita con il Dovi. Entrambi sono due piloti straordinari, con pochissime necessità fisiche, al di là degli infortuni: anche questo spiega tante altre cose. Con Casey avevo un feeling maggiore perché caratterialmente ci assomigliamo un po’: ha trovato una persona che lo capiva un po’ di più”.


Stoner si sfogava con te?
“Per quanto mi riguarda è il ragazzo più gentile e tranquillo del mondo. E’ un introverso, non ama le luci della ribalta, non cerca nemmeno la gloria. E’ una persona che combatte e vuole sempre dimostrare qualcosa a se stesso, schivo di tutto: un uomo da bosco, come me…”.


Per come lo conosci, tornerà nel motomondiale?
“Per come lo conosco no, ma qualsiasi ipotesi è giusto o sbagliata. Sicuramente gli manca andare in moto: non dico correre nel motomondiale o addirittura vincere un titolo, ma andare in moto sì. Secondo me era già così negli ultimi tempi: non gli interessava vincere, ma guidare una moto”.

Andrea Dovizioso
Andrea Dovizioso


Adesso, però, dicci qualcosa di Dovizioso.
“E’ la persona alla quale tengo di più, sotto tutti i punti di vista. Assieme a Pedrosa è stato il mio primo “amore” motociclistico, ho i loro numeri tatuati sulle gambe. Ho tenuto a battesimo tutta la loro carriera: quando ero in Clinica aspettavo con impazienza il loro arrivo. Andrea, caratterialmente, è molto diverso da me, ma si è subito fidato, forse anche per il mio modo di fare un po’ strano. Anche lui molto introverso: apparentemente può sembrare negativo, ma in realtà è una persona molto profonda. Adesso lo conosco molto bene, non perfettamente, perché il Dovi è una di quelle persone che ti lascia sempre un velo di mistero, che per me è molto importante. Sinceramente, non sarei qui se lui non avesse bisogno di me”.


Siamo a Misano: raccontaci un aneddoto di questo GP.

“E’ una pista alla quale non sono affezionato più di tanto, perché nei momenti d’oro della “passione”, qui non si correva. Però ho un grandissimo ricordo: la mia prima gara di motomondiale vista dal vivo, nel 1991. Avevo un busto di gesso per la frattura di tre vertebre, ero caduto in moto: il mio babbo, per farmi contento, mi portò a vedere il GP, anche se faticavo a respirare. Un altro ricordo: nel 2008, appena finito il massaggio a Dovizioso in Clinica, sono andato al motorhome di Rossi, con il quale Costa aveva l’accordo: ero in ritardissimo e ho “bucato” l’orario in Clinica per mettere il bendaggio al polso sinistro malmesso di Stoner. E’ stata l’unica volta che ho saltato questo impegno: Casey, poi, è caduto. Non mi ha mai dato la colpa, ma mi sono sentito un po’ responsabile”.