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E’ giovane, ma ha già una grande esperienza avendo lavorato, tra gli altri, per tre Case motociclistiche importantissime come KTM, Aprilia e adesso Ducati. Del resto, a soli quattro mesi Francesco Guidotti era già in un campo da cross assieme a papà Fabrizio, per anni punto di riferimento dell’Aprilia e scopritore di tanti campioni della velocità. Una eredità che Francesco porta avanti nel migliore dei modi, grazie a una passione profonda e a conoscenze invidiabili in tutti i settori del motociclismo. Perché Francesco, a differenza di molti suoi colleghi team manager, ha frequentato o lavorato nel motocross, in SBK, in 125, in 250, in MotoGP.
Nome e cognome?
«Francesco Guidotti».
Nato dove e quando?
«Firenze, 25 novembre 1972».
Prima gara di moto che hai visto?
«Non me la ricordo perché avevo circa 4 mesi: mio babbo lavorava nel motocross e mi portò a marzo alla prima gara di campionato».
Qual è invece la prima gara che ti ricordi?
«Avrò avuto 5-6 anni, sempre di motocross “nazionale”: può essere Montevarchi, Maggiora, Fermo, Faenza…».
Insomma, la passione per le moto è nel DNA familiare.
«Sì, è così».
Che scuola hai fatto?
«Istituto Tecnico Industriale, al Meucci di Firenze. Poi sono andato a lavorare nell’azienda di famiglia: era troppo grande la passione per continuare a studiare».
Hai iniziato facendo cosa?
«Il meccanico. Per la verità, allora si faceva un po’ di tutto: le strutture erano piccole e non si faceva un lavoro solo. A quei tempi, a fine degli anni Ottanta, mio babbo aveva già inizi ato la collaborazione con l’Aprilia per la velocità – era il riferimento per i piloti privati che usavano le RSW replica “Reggiani” - e le moto si preparavano a casa e non in pista, come invece avviene adesso. Durante l’inverno montavamo le moto, che poi venivano vendute, quindi facevamo assistenza tecnica in pista. Poi ho cominciato la gestione di piccoli team, poi il team Italia 250 e così via: progressivamente ho smesso di occuparmi della parte manuale, anche perché se ne occupavano persone più brave di me. C’è stata una evoluzione gestionale all’interno della squadra, ci voleva una persona che stesse dietro alla parte organizzativa, perché le esigenze crescevano con l’aumentare del gruppo: così, quasi senza accorgermene mi sono trovato a fare più un lavoro di gestione, organizzazione e amministrazione, che non la parte tecnica, meccanica».
Adesso qual è il tuo ruolo esatto?
«La dicitura è “Team Manager” Ducati-Pramac, ma è un lavoro che negli ultimi 10-15 anni è cambiato moltissimo. E’ anche differente se fai il team manager per una Casa ufficiale o per una squadra satellite come questa, anche se lavoriamo in stretto contatto con la Ducati».
Proviamo a specificare meglio: tu hai fatto il team manager di squadre ufficiali come KTM (in 125 e 250) e Aprilia SBK, mentre adesso lavori per una squadra satellite. Puoi dire esattamente cosa fa un team manager e qual è la differenza tra squadra ufficiale e satellite?
«Intanto, la preparazione della stagione è molto differente. Il team manager di una squadra ufficiale deve proporre, è lui che deve cercare di dare un indirizzo al team, ma alle spalle ha una Azienda che deve dare una giustificazione alle corse, secondo una strategia ben precisa che dipende da fattori come il marketing e la comunicazione. C’è anche un ufficio legale, che segue tutta la parte contrattuale, delle sponsorizzazioni, con una struttura complessa ed articolata: ogni reparto ha le sue esigenze, le sue difficoltà e il team manager deve cercare di mettere insieme tutti i “pezzi”. Inoltre, in una squadra ufficiale, solitamente ci sono piloti di un certo livello, con determinate caratteristiche, con una forte personalità: insomma, la gestione è abbastanza complessa, ma hai anche tanti strumenti da utilizzare, hai un supporto alle spalle. In una squadra privata, devi fare un po’ tutto da solo: dalla parte legale alla comunicazione e alla logistica. Le necessità sono più modeste, ma anche le disponibilità e ti devi confrontare con le squadre ufficiali: insomma è piuttosto difficile».
In pista cosa fa un team manager?
«Deve essere il riferimento per tutto le persone che lavorano all’interno della squadra, a partire dai piloti. Devi tenere i rapporti con la Casa “madre”, nel nostro caso la Ducati, devi soddisfare gli ospiti che vengono in circuito, devi tenere i rapporti con la stampa: è molto articolato».
E dentro al box cosa fai?
«Dentro al box sono soprattutto i tecnici a lavorare: personalmente, ho piacere di sapere, anzi devo sapere cosa succede: grazie al mio passato “tecnico” ho la percezione della gravità o meno di un problema sulla moto. Il team manager deve anche aiutare il capo-tecnico, l’ingegnere di pista, il pilota nella strategia gara e prove, come per esempio la scelta della gomma».
Ma il team manager è una figura assolutamente indispensabile o potrebbe esistere una squadra senza team manager?
«Chiamalo come vuoi – proprietario della squadra, team coordinator, team manager, team principal – ma ci vuole una figura che tiene insieme 30 persone. Deve essere una figura con un certo carisma, una persona della quale le altre 29 si fidano, uno che quando dice una cosa, 9 volte su 10 riesce a realizzarla. Deve cercare di prevenire i problemi: quando arrivi in pista, deve funzionare tutto, non ci devono essere particolari problemi. Qualche anno fa era meno importante, perché per un pilota c’erano al massimo quattro persone ed era il capo meccanico a fare da riferimento per la squadra. Adesso non è più possibile e c’è anche l’hospitality da gestire, una parte importante che si è evoluta negli anni: è uno strumento che serve ad attirare interesse, ospiti, persone che magari non hanno mai visto una corsa o una moto. Li devi accogliere in un ambiente che li faccia sentire a proprio agio, perché nel box, più di tanto non ci possono stare. Insomma, il mio lavoro si è tanto evoluto e diversificato. Per quanto mi riguarda, ho avuto la fortuna di vivere due epoche piuttosto importanti del motociclismo moderno: quella dei primi anni Novanta, con il passaggio dalle moto artigianali a quelle ufficiali con l’intervento diretto di Honda, Yamaha, Aprilia e della altre Case, che hanno dato una grande accelerazione all’evoluzione delle moto; poi i primi anni 2000, con la fine dei motori 2T, sostituiti dai 4T».
Hai lavorato, tra gli altri, con Max Biaggi e con Marc Marquez, proprio all’inizio della carriera di Marc: prova a descriverli.
«In Marquez ho creduto da subito, da quando ha debuttato nel motomondiale 125. Dissi subito: “questo ha una marcia in più”. Mi ricordava Biaggi all’esordio, di cui io avevo fatto il meccanico nell’europeo, mi ricordava Roberto Locatelli, tutti quei piloti che non solo andavano forte, ma avevano una predisposizione ad assimilare velocemente gli aspetti importanti delle gare, di essere pilota. Marquez in gara si esalta: una parte del mio lavoro, è quella di accompagnare il pilota nella maggior parte delle fasi quotidiane e capisci tante cose già da come si vestono, da come sono gelosi del casco, della tuta, da come trattano questi indumenti con rispetto. Marquez mutava espressione già quando si cambiava per le prove. Io l’ho conosciuto che aveva 15 anni, con la faccia da bambino, perché ha sempre dimostrato meno della sua età, ma quando saliva in moto era completamente diverso: la sera a cena era un ragazzino, nel box era già un pilota, uno che ascoltava attentamente quello che gli dicevi, qual era il programma di lavoro. Lo sguardo era sempre concentrato, proiettato al turno e quando si cambiava per la gara aveva – immagino che abbia ancora, è un po’ che non lavoro più con lui – negli occhi la gioia di andare a correre».
Quindi per te non è una sorpresa quello che sta facendo in MotoGP.
«No, non lo è. Nel 2010, quando in 125 fece quattro “zeri” nelle prime quattro gare, perché è sempre stato uno molto irruento, gli dissi: “se ti dai una calmata, le puoi vincere tutte”. Ci credevo, nonostante tutto. Quell’anno, Marc conquistò il primo GP al Mugello e da lì cambiò passo, vincendo poi il titolo: per me non fu una sorpresa, ci avevo sempre creduto. A maggior ragione, non sono meravigliato oggi per i suoi risultati in MotoGP: mia moglie dice che parlo di Marquez come di mio figlio! Del resto, con lui ho iniziato a lavorare nel 2008, quando era un pilota KTM “satellite”, mentre nel 2009 era nella mia squadra: gli ho voluto bene al di là del pilota, delle sue prestazioni. Si fa voler bene: è un ragazzo rispettoso, educato. Ci distrusse un po’ troppe moto, ma andava bene così… Nel 2010, al Mugello, quando vinse la sua prima gara iridata, nell’intervista al parco chiuso con Italia1, si ricordò, nonostante l’adrenalina del momento, di ringraziare me e Mario Galeotti (grande tecnico, morto purtroppo qualche anno fa per una malattia incurabile, NDA), perché avevamo lavorato con lui in passato».
Biaggi, al contrario, non è certo famoso per essere un carattere facile…
«Tutt’altro! Ho avuto modo di conoscere Biaggi quando faceva la Sport Production, nel 1989-1990, perché noi (nel senso dell’azienda Guidotti, NDA) facevamo servizio di assistenza per l’Aprilia anche nella SP: già lì si capiva che era un ragazzo sveglio. Nel 1991 ha fatto l’europeo 250 con il Team Italia e io, pur andando ancora a scuola, mi liberavo abbastanza spesso per andare alle gare e facevo da aiuto meccanico. Eravamo entrambi ragazzini e siamo tornati a lavorare insieme a distanza di quasi vent’anni: per me non è stato così difficile con lui. Max tende a mettere molta pressione, a volte anche arroganza nel modo di chiedere le cose, nei modi di fare, ma grazie al rapporto che si era instaurato nel tempo, ho sempre avuto modo di dirgli le cose giuste al momento giusto. Non ci sono stati momenti di grandi tensioni: la difficoltà più grande era trasformare per l’Azienda in positivo quello che lui diceva di negativo, ammorbidire le sue maniere poco ortodosse. Con Max ho ancora un buonissimo rapporto, però è chiaro che lavorare con lui è difficile. Ma in due anni abbiamo portato a casa un mondiale: alla fine è quello che conta. In quegli anni, in Aprilia c’era tanta pressione, perché era stato fatto un investimento importante in un momento difficile, perché c’era uno sponsor di prestigio come Alitalia, per Max era una sfida nuova, era ammesso un solo risultato: vincere. Abbiamo fatto un buon lavoro, mentre l’anno dopo, stranamente, lui l’aveva presa un po’ sottogamba, sono accaduti un po’ di episodi particolari, fatto sta che non siamo riusciti a ripeterci».
Hai un ricordo particolare del Mugello?
«La prima gara di motomondiale che ho visto è stata al Mugello nel 1985, quando Freddie Spencer correva sia in 250 sia in 500: è decisamente un bel ricordo».