Dietro le quinte della MotoGP: Gino Borsoi

Dietro le quinte della MotoGP: Gino Borsoi
Pilota, collaudatore, proprietario di un team, direttore sportivo: la storia di Gino Borsoi è lunga e ricca di soddisfazioni, anche se in pista è mancato l’acuto della vittoria e del titolo mondiale, sfiorato nel 2001 | G. Zamagni
24 ottobre 2013

Punti chiave


Pilota, collaudatore, proprietario di un team, direttore sportivo: la storia di Gino Borsoi è lunga e ricca di soddisfazioni, anche se in pista è mancato l’acuto della vittoria e del titolo mondiale, sfiorato nel 2001, la sua miglior stagione. Adesso Gino è uno dei punti fermi del Team Martinez, da tempo tra i migliori del motomondiale.


Nome e cognome?

«Gino Borsoi».


Nato dove e quando?

«Motta di Livenza (VI), l’11 marzo 1974».


Fai un breve riassunto della tua carriera di pilota

«Ho iniziato nel mondiale nel 1997 con il team Semprucci e la Yamaha, per poi passare all’Aprilia l’anno successivo: fino al 2004, la mia ultima stagione iridata, sono sempre stato nel mondiale 125 con la Casa di Noale. Nel 2003 e 2004 oltre a fare il pilota ero anche proprietario della squadra: sapevo che a breve sarebbe stato introdotto il limite massimo di età (28 anni) per la cilindrata più piccola e così mi ero già portato avanti, pensando al mio futuro. I risultati migliori li ho ottenuti nel 2000 e nel 2001, quando ero in testa al campionato, prima di farmi male a Brno nell’unica caduta della stagione. Il 2005 è stato il mio primo anno solo come proprietario di team: assieme ai miei soci, decidemmo di lasciare l’Aprilia per passare alla Honda, una novità per me. Tra l’altro io, dal 1997 ero anche pilota collaudatore di Aprilia per la 125, la 250 e anche per le moto stradali, ho portato avanti lo sviluppo della RSA quando arrivò la nuova moto: insomma quello era il mio mondo e a metà 2005, nonostante appunto la mia squadra utilizzasse moto Honda, venni richiamato da Gigi Dall’Igna (allora responsabile del reparto corse di Noale, oggi nuovo direttore generale di Ducati Corse, NDA) per fare i collaudi della RSA. In effetti quello fu un anno un po’ difficile per me, con qualche conflitto d’interesse, perché ero proprietario Honda e collaudatore Aprilia… Sempre nel 2005, proprio qui in Giappone, sono iniziato i primi contatti con Martinez, che mi proponeva di far parte della squadra. Gli feci delle richieste sulle persone e il modo di lavorare, lui le accettò immediatamente e iniziò la nuova avventura con il team Aspar».


Cosa facevi allora e cosa fai adesso?

«All’inizio dovevo gestire solo la squadra 125, con un pilota italiano, Mattia Pasini, poi arrivò Alvaro Bautista e c’era anche Sergio Gadea: in quel momento dovevo solo sovrintendere i rapporti tra il team e l’Aprilia. Poi, quando sono arrivato in Spagna, Jorge mi ha chiesto di seguire anche la 250, che in quel momento aveva un solo pilota, Alex De Angelis. Insomma, da semplice aiutante nel gestire i rapporti con Noale, oggi sono il direttore sportivo della squadra nelle tre categorie: è un bell’impegno, anche difficile, perché con moto diverse ci sono tre modi di lavorare differenti, tre Case diverse, sei piloti, ciascuno con la propria esigenza. Ma è bellissimo».


Quante persone lavorano al team Martinez?

«54».


Tu cosa fai esattamente?

«Io e Martinez ci siamo divisi i lavori: lui pensa ai soldi, a trovare gli sponsor, io penso a spenderli… Guardo un po’ i contratti con i piloti, ma non più di tanto, perché c’è un direttore generale e un avvocato che si occupano di questo aspetto, ma sono io a prendere i primi contatti con i piloti. Prendo gli accordi con i meccanici, controllo l’aspetto tecnico, i rapporti tra la squadra e Aprilia, KTM e Kalex, decido e controllo il materiale da ordinare».


Tu adesso vivi a Valencia, sei un “emigrante” a tutti gli effetti: è stato difficile adattarsi?

«No, si sta bene lì. Solo la lingua ha rappresentato un problema: io sono arrivato in Spagna a fine 2005 senza sapere una parola, o quasi, e nei primi mesi ho faticato un po’. Sembra facile, ma quando partecipavo a una riunione e tutti parlavano la loro lingua velocemente, non capivo nulla. Fortunatamente Martinez conosceva un po’ di italiano e riuscivamo in qualche modo a intenderci. Poi, una volta appresa la lingua, è diventato tutto più semplice: la gente è molto aperta, non è difficile lavorare con gli spagnoli. Hanno solo dei ritmi differenti, soprattutto rispetto a quelli ai quali ero abituato a casa mia, nel veneto: sotto questo aspetto ho fatto un po’ di fatica ad adattarmi. Ho dovuto cambiare qualche orario: si inizia alle 9 e alle 10 loro hanno una sorta di spuntino e fino alle 11, specie nella zona di Valencia, fai fatica a trovare qualcuno con cui poter lavorare. L’Aprilia, però, chiude alle 12 per riaprire alle 14 e lavorare fino alle 17. Noi smettevamo alle 14 e facevamo pausa fino alle 16 per andare avanti fino alle 19. In sostanza, avevamo un’ora effettiva per dialogare con Aprilia: era un casino. Così ho fatto dimezzare la pausa pranzo, ho cercato di ricollocare gli orari, se no facevamo troppo fatica. Fortunatamente ho sempre avuto l’appoggio della squadra, anche in queste cose che sembrano banali, ma non lo sono: è importante avere una sintonia di orari con l’esterno per potersi coordinare».


Quanto è importante essere stato un pilota per fare il tuo lavoro?

«Abbastanza importante: è più facile capire cosa ha bisogno il pilota quando c’è un problema o nelle riunioni tecniche, per poi spiegarlo al capomeccanico. E’ anche più facile non arrabbiarsi se i risultati non arrivano: avendo fatto quel mestiere lì, capisco se la moto non va come vorrebbe il pilota. Diciamo che riesco a valutare meglio la situazione. Il rovescio della medaglia è che spesso fatico ad arrabbiarmi con il pilota, sono troppo dalla sua parte: tendo sempre un po’ a difenderlo».


Hai avuto tantissimi piloti, sarebbe troppo lungo parlare di tutti. Rimaniamo sul presente: qual è il tuo giudizio su Aleix Espargaro?

«Aleix è stata una gran sorpresa. Abbiamo deciso di prenderlo due anni fa: volevamo un pilota giovane, ma di esperienza. Lo abbiamo provato su una Moto2, ma abbiamo visto che il suo stile di guida si adatta forse di più a una MotoGP: abbiamo fatto questa scelta all’ultimo minuto. In quel momento, nessuno, tranne noi, dava troppo credito a Espargaro e la stessa Aprilia non era così convinta. Ma noi ormai avevamo deciso, doveva essere lui il pilota da affiancare a De Puniet: è stata una scelta azzeccata».


Ti piace la strada che sta prendendo la MotoGP?

«Io sono per la centralina e il software unico: l’avrei già introdotto nel 2014, ma non si è potuto per diversi motivi. Nel 2017, forse già nel 2016, tutti avranno la stessa centralina: è un modo per livellare le moto in pista, la strada giusta da seguire».


E della Moto2 e della Moto3 cosa pensi?

«La Moto3 è sicuramente una bella formula, anche se i costi sono ancora troppo alti: se si riescono ad abbassare le spese diventerà una categoria molto interessante. La Moto2 è azzeccata per quanto riguarda lo spettacolo: se hai un buon pilota, puoi giocarti il mondiale indipendentemente dalla moto, perché non c’è una grande differenza di prestazioni per esempio tra una Kalex e la Suter che usiamo noi. E’ una formula che a noi – Team Martinez – ci ha fatto un po’ “male”, perché da protagonisti assoluti della 125 e della 250, siamo tornati nel gruppo: va bene così, è più facile per tutti giocarsi il mondiale».


Sei un italiano in casa degli spagnoli, che stanno dominando il mondiale: troppo? E’ un male per il motociclismo?

«Non puoi immaginare cosa significhi per un italiano vivere con degli spagnoli, che stanno vincendo tutto!».


Per i piloti italiani vedi un futuro?

«Con Martinez e con Valentino Rossi stiamo cercando di avviare un progetto che possa aiutare non solo i piloti spagnoli – ce ne sono già troppi –, ma anche gli italiani: questo accordo che è stato fatto con Valentino è sicuramente positivo. Avremo un giovane italiano e uno spagnolo da far correre nel CEV, che è il campionato di riferimento, perché in Spagna ci sono più piste e si può girare molto di più per una temperatura decisamente più favorevole rispetto all’Italia: si possono fare molti più test, un bel vantaggio».

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