Kevin Schwantz: "Il motociclismo non è uno sport di contatto"

Un'intervista con Kevin Schwantz In occasione del Suzuki Day. In cui abbiamo parlato del passato e del presente di Suzuki e delle gare
11 maggio 2018

Kevin Schwantz è un nome che non ha bisogno di presentazioni. Il texano, campione del mondo della 500 nel 1993 e da sempre legato a filo doppio a Suzuki, è stato ed è tuttora uno dei piloti più amati della storia. Il suo numero 34 (ereditato dallo zio, anche lui pilota e titolare di una concessionaria) è stato il primo che Dorna ha ritirato dalla classe regina, e ancora oggi, nelle chiacchiere degli appassionati – giovani e meno giovani – si ricordano le gare di Kevin.

L’ormai leggendaria staccata di Hockenheim, il sorpasso all’esterno di Donington – entrambi sullo storico rivale Wayne Rainey, ma anche l’incredibile e sfortunata gara di Assen, nel 1989, sono ormai momenti da cineteca del Motomondiale. E il motivo per cui, a distanza di tanti anni, Schwantz sia ancora al centro dell’attenzione di eventi come il Suzuki Day sul Cremona Circuit, dove oltre alle tante attrattive offerte dalla pista e dal paddock, è stato Kevin a polarizzare l’attenzione di tanti, tantissimi appassionati. E grazie a Suzuki, non ci siamo fatti scappare l’occasione di fare una chiacchierata con KS#34, per parlare di motomondiale e della Casa di Hamamatsu. Il video è sottotitolato, basta attivare la funzione con il pulsante "cc".

Inizio naturalmente dai complimenti, perché continuo a pensare, dopo tanti anni, che il GP di Suzuka del 1989 sia ancora la gara più bella di tutti i tempi. Chi ha avuto la fortuna di vederla sa di cosa stiamo parlando: un duello lungo oltre metà gara (che vi riproponiamo in un estratto preso dalla TV Spagnola) che ha istantaneamente scolpito nella leggenda i nomi – già celebri – di Schwantz e Rainey.

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Inevitabile un confronto fra le 500 di allora e le moto di oggi, che sono diventate più veloci ma anche – forse – più facili, cambiando il volto delle gare. Cosa ne pensi?

«Credo che le moto non siano diventate più facili, quanto che invece perdonino di più. Le carriere dei piloti durano molto di più rispetto ai miei tempi. La sicurezza delle piste è migliorata moltissimo, le moto e l’abbigliamento sono diventati molto più sicuri. Il livello della competizione è rimasto incredibile, dal primo all’ultimo in MotoGP ci sono si e no tre secondi – basta avere una giornata in cui non si è al 100% e ci si ritrova dodicesimi o tredicesimi».

Uno dei motivi di questo equilibrio sta anche – in parte – nel regolamento che prevede un singolo fornitore per le gomme. Kevin, secondo te rende le gare più o meno interessanti?

«Credo che renda le gare meno interessanti. Quando correvo io nessuno sapeva che gomme usavano gli altri, a parte il fatto che fossero Dunlop o Michelin. C’erano tantissime carcasse e mescole diverse, e solo guardando i numeri potevi capire di che gomma si trattasse – peraltro riuscivamo a coprirli abbastanza bene. Magari potevi scegliere una gomma più dura, e all’inizio della gara gli altri prendevano e ti lasciavano lì, ma con il passare dei giri le gomme dure andavano sempre meglio e se riuscivi a non farti staccare troppo nella prima parte potevi andarli a prendere».

«Sicuramente il monogomma è meglio dal punto di vista dello sviluppo delle moto, e rende la vita più facile ai piloti, che non hanno così tante gomme fra cui scegliere – allora arrivavamo ad avere quattro o cinque gomme, sia per l’anteriore che per il posteriore, da provare in un solo weekend per capire se sarebbero arrivate a fine gara. Comunque credo che le gare siano bellissime anche oggi. Lo sono quanto lo erano ai miei tempi (Kevin usa l’espressione “glory days”, NdA), quando correvamo con le 500? Forse no (ride), ma la competizione è sempre tiratissima».

Credi che il livello di sofisticatezza delle moto di oggi, e il grande peso dell’elettronica, abbiano limitato in qualche maniera le possibilità del pilota di improvvisare in gara?

«Penso che abbia ragione Valentino quando, un paio d’anni fa, ha detto una cosa tipo “La moto con cui parti è quella con cui corri fino alla fine”. Le moto hanno un livello prestazionale abbastanza fisso, con qualche variazione legata alle mescole e alle carcasse più o meno dure o morbide delle gomme. Le gare… insomma, sono sempre gare, ma sicuramente sono diventate più semplici».

Un’altra curiosità. Ai tempi di Schwantz le gare erano tirate almeno quanto adesso, ma i contatti erano decisamente rari. Negli ultimi anni, invece, anche senza tirare in ballo le polemiche recenti, le “sportellate” sono diventate decisamente più frequenti. Cos’è cambiato? Le moto, i piloti, la sicurezza in generale?

«Credo che una delle ragioni sia la minor differenza prestazionale che si ha fra moto e piloti. Oggi le differenze sono così ridotte che ogni pilota deve cogliere la minima opportunità per passare. Con le 500 era molto diverso: potevi studiare il pilota che avevi davanti, aspettare il momento giusto per passare in frenata oppure uscire più veloce di lui da una curva. Credo che con l’elettronica e il monogomma il livello delle moto sia vicinissimo, e quindi i contatti sono diventati più frequenti e dunque normali. Ma non credo che dovrebbero esserlo, il motociclismo non è uno sport di contatto. E’ un campionato del mondo di velocità: se sei più veloce di chi ti precede dovresti trovare il punto in cui passarlo senza andargli addosso».

Ma parliamo di Suzuki: come vedi la GSX-RR di quest’anno rispetto alla concorrenza?

«Beh, ad Austin è andata molto bene, e anche in Argentina, in condizioni miste, ha fatto un’ottima gara. Siamo stati nei primi dieci in tutte le sessioni di prove e in gara fin dall’inizio dell’anno – ci sono state solo tre gare finora, è vero, ma mi sembra che sia la GSX-RR migliore di sempre, e che sia i piloti che il team abbiano trovato il modo per tirarne fuori qualcosa di più. Penso che possa puntare al podio in tutte le gare».

Sei coinvolto anche nello sviluppo delle Suzuki stradali o… ti limiti a farci un giro quando sono finite?

«No, le provo solo quando mi chiamano per dirmi che sono finite. Mi piacerebbe poter dire di aver fatto parte del team di sviluppo della nuova GSX-R1000R, ma non ci ho avuto assolutamente nulla a che fare… che moto fantastica!».

Allora torniamo a parlare di sport. Sono passati davvero tanti anni dall’ultimo titolo conquistato da un americano, mentre ai tempi in cui correva Kevin c’era un vero e proprio dominio da parte di statunitensi e australiani. Come mai?

«Credo che il motivo principale sia la mancanza di supporto da parte delle Case nei nostri campionati nazionali. Il team Yamaha probabilmente ha un po’ di supporto dalla Casa madre, Suzuki forse riceve qualche pezzo speciale… ma eravamo abituati ad avere squadre ufficiali Honda, Kawasaki, Yamaha, Suzuki e quant’altro. L’unico modo – o meglio, quello più semplice, la strada che ho seguito io – per un pilota americano di correre in Europa è quello di farsi vedere e convincere la Casa che lo supporta a portarlo al Mondiale, così come ha fatto Suzuki con me».

«I costi di un’operazione per portare un americano in Europa nella stagione estiva a correre in qualche campionato nazionale sarebbero insostenibili praticamente per chiunque, da privato, oggi come allora. Di fatto il problema è il calo delle vendite di moto negli Stati Uniti, e quindi di campionati che attirino l’interesse delle Case.».

Insomma, la soluzione sarebbe quella di proporre a Dorna di ripristinare il Transatlantic Trophy...

«Certo, una cosa del genere. In realtà credo che la vera soluzione al problema sarebbe che gli americani ricominciassero a comprare moto sportive. A suo tempo, prima del 2008, Suzuki vendeva 50/60.000 GSX-R all’anno negli Stati Uniti, oggi ne vendiamo si e no il 10%. Senza vendite non ci sono i soldi perché le Case possano supportare team ufficiali…».

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