MotoGP. Da Kenny a Joe, nel segno di Roberts

MotoGP. Da Kenny a Joe, nel segno di Roberts
Nessun grado di parentela, ma con la firma Roberts gli americani tornano a farsi sentire nel mondiale. Joe ha conquistato una pole in Moto2, poca cosa di fronte alle imprese di tanti giganti a stelle e strisce del passato. Ma è qualcosa
20 marzo 2020

La pole position di Joe Roberts in Qatar, e poi il suo quarto posto nella gara di Moto2, hanno riportato un po’ di gloria agli Stati Uniti, che nel mondiale da troppi anni mancano all’appello.

Era stato Ben Spies a conquistare l’ultima pole position americana, e lo aveva fatto nel 2010, dieci anni fa, allo Speedway di Indianapolis nella classe MotoGP: con la Yamaha Tech 3, lasciò Jorge Lorenzo a 220 millesimi e Nicky Hayden con la Ducati a 223. In gara Spies fu secondo dietro a Pedrosa con la Honda e a Lorenzo con la Yamaha.

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Ben Spies era un bel talento, l’anno prima aveva trionfato da rookye nel mondiale SBK con la Yamaha, con 14 vittorie e un dominio che non si era mai visto prima. Poi sappiamo come i numerosi incidenti e le lesioni soprattutto alle spalle lo abbiano costretto a fermarsi troppo presto.

2010. Proprio in quello stesso anno un altro americano scattava dalla pole in Moto2, la prima per un pilota USA. Si trattava di Kenny Noyes, nato a Barcellona nel ’79 da genitori americani - figlio di quel Danny Noyes che per molti anni è stato un giornalista tra i più qualificati nel paddock - e qui aveva iniziato a correre da ragazzino. Rientrato negli States nel ’97 con la famiglia, Kenny aveva vinto lì un titolo nazionale e poi era tornato in Europa per due stagioni complete di Moto2 ma senza brillare.

Da Kenny in avanti

La scuola americana era stata immensa, come sanno bene i meno giovani. Il primo a vincere un GP era stato Pat Hennen in Finlandia, classe 500 nel 1976, mentre Steve Baker fu il primo a centrare un titolo mondiale: accadde nell’effimera classe 750, anno 1977. Subito dopo Kenny Roberts ha conquistato tre titoli nella classe 500 e si è trascinato dietro una vera scuola a stelle e strisce nella top class. Nomi come Freddie Spencer, tre titoli e la famosa doppietta Honda 250/500 dell’85, Eddie Lawson che ha vinto più di tutti (4 titoli della 500 e 31 vittorie su tre moto diverse), John Kocinski campione in 250 e poi sulla Cagiva 500 e più avanti iridato Honda SBK nel ’97.

E ancora lo sfortunato Wayne Rainey con i suoi tre campionati consecutivi, Kevin Schwantz che ne ha preso l’eredità nell’anno 1993 del disastro, Randy Mamola e le tante star della SBK come Fred Merkel, Doug Polen campione anche dell’Endurance, Scott Russel e più avanti Colin Edwards e Ben Spies.

Qualcuno magari ricorderà anche le scorribande precedenti degli yankees sul motociclismo europeo, avventure come quelle di Cal Rayborn dominatore con l’Harley del confronto “americani contro inglesi” nel ’72, il Transatlantic Trophy. Poi Gary Nixon, Gene Romero, Don Emde, Dale Singleton, la Gina Bovaird che corse la 200 miglia di Imola due volte e Randy Cleek che proprio a Imola morì in un incidente stradale alla vigilia dell’edizione 1977.

Ma Kenny Roberts è stata la vera pietra miliare e chi l’ha conosciuto lo rispetta e lo considera addirittura unico. E non soltanto per la guida. Sì, Kenny ci ha mostrato cosa significa avere il controllo assoluto della moto, che lui aveva esercitato sugli ovali in terra da un miglio, dove era devastante ed è tuttora fenomenale; ma è andato ben oltre. Ha lottato a viso aperto contro la decrepita FIM che non dava ai piloti la voce (sulla sicurezza soprattutto) e gli ingaggi adeguati, ha messo i costruttori giapponesi sulla strada giusta, ha provato a diventare lui stesso costruttore, ha creato una scuola. Unico il suo carisma. E ha meritato la grande soddisfazione di essere anche l’unico padre-campione di un campione-figlio.

Negli anni Duemila la scuola americana era calata ma non certo scomparsa, come testimoniano prima il titolo mondiale 500 di Kenny Roberts jr nel 2000 con la Suzuki e poi quello di Nicky Hayden in MotoGP sei anni dopo.

Oggi la pole di Joe Roberts è poca cosa, di fronte a tutte queste imprese, forse è soltanto un segnale. Ma fa bene al cuore del team American racing e di tutto il movimento MotoAmerica animato da Wayne Rainey.

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