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SILVERSTONE – Anche chi non è suo tifoso, deve riconoscere a Jorge Lorenzo due grandi qualità: 1) dedizione assoluta per il lavoro; 2) grande onestà nelle risposte. Si può condividere o meno quello che dice, ma Lorenzo non mente mai quando parla: da apprezzare. Così come è encomiabile la sua abnegazione alla “causa” Ducati: nessuno lo può accusare di non impegnarsi al massimo. Anzi, più scoppole prende e più Lorenzo si impegna, non si arrende mai. Per tutto questo, mi è piaciuto parlare con Jorge in questa intervista esclusiva concessa a Moto.it.
Jorge, qual è il tuo bilancio fino adesso?
«I risultati sono stati inferiori alle aspettative, è stato più difficile di quello che pensava la gente, ma anche di quello che credevo io. Non mi aspettavo tante problematiche per essere competitivo. Una volta capito questo, ho avuto la calma e la fede per lavorare tranquillamente, umilmente con la squadra per trovare il modo per essere più veloce con questa moto. Tutto mi ha aiutato: l’esperienza della squadra, quella di altri piloti che hanno corso in Ducati, Michele Pirro, la mia esperienza e la mia naturale curiosità. Messo tutto insieme ha portato dei benefici, ho potuto fare un salto in avanti. Adesso sono più efficace».
A che punto siamo: al 60%, all’80%, al 90%...?
«Spero di essere il più lontano possibile dal 100%: significherebbe avere ancora un grosso margine di miglioramento. Ogni volta che salgo sulla Ducati, imparo qualcosa di nuovo, tolgo qualche decimo, riesco andare un po’ più forte e vicino al limite. Sicuramente, avere fatto tanti anni con la stessa squadra, dove c’erano altre priorità, può aiutare anche la Ducati, che punta su altri aspetti tecnici: mettere tutto insieme può rendere la DesmosediciGP più completa. E vincente: questo è il mio obiettivo. Non solo per me, ma per tutti i piloti Ducati: il mio sogno è farla diventare la migliore moto della griglia insieme a Gigi Dall’Igna, a tutti gli ingegneri e naturalmente a Dovizioso, che è un grande pilota e collaudatore».
Io sono sempre stato un po’ critico, tra quelli che pensano che il tuo stile di guida non sia adatto a questa moto; a mesi di distanza pensi che sia un po’ così e bisogna cambiare questa Desmosedici perché tu riesca ad andare forte?
«No, non è così. Io penso che uno dei motivi di tante critiche è che l’aspettativa era troppo alta. E’ vero che è arrivato in Ducati un cinque volte campione del mondo, un pilota che ha conquistato tante gare e molti podi, ma nessun campione vince se non si trova a suo agio. Se non è tutto a posto, puoi essere un buon pilota, ma non fare la differenza. Ci sono tanti esempi, anche in altri sport. Prendiamo la F.1: quando è cambiato il regolamento, Vettel, che era il campione, è andato in crisi, e Ricciardo, che era al debutto con quella squadra, l’ha battuto quasi sempre. Se c’è qualcosa che non ti piace, se la moto non ti dà confidenza per qualche motivo, non puoi lottare con fenomeni come Marquez, che conosce la Honda da cinque anni, o come Vinales che si è subito adattato alla Yamaha e tutti gli altri. Puoi arrivare a mezzo secondo, o più vicino, ma per lottare con loro ti devi sentire perfettamente a tuo agio con la moto come si sentono loro. Piano piano mi sono adattato alla Ducati, ma anche i tecnici hanno portato evoluzioni per farmi sentire bene: la combinazione di tutte queste cose ha fatto sì che nell’ultima gara io sia riuscito a fare 11 giri in testa, nonostante non avessi il ritmo migliore. Ogni volta siamo sempre più vicini: invece di sette decimi o un secondo, ci mancano uno o due decimi. E’ la conseguenza della mia curiosità, di capire ogni volta sempre più cose, del miglioramento della Ducati verso il mio stile di guida».
A proposito degli 11 giri al comando in Austria: tu li valuti in modo molto positivo, io dico che è stata una tattica “suicida”, senza speranza, un limite tattico.
«Ma quando guidavo la Yamaha questa tattica veniva considerata un pregio, non un limite! Se avessi saputo che al terzo giro avrei dovuto cambiare la mappatura elettronica per l’eccessivo consumo di benzina, non avrei spinto così. Andare forte all’inizio è una qualità che ho sempre avuto negli ultimi 4-5 anni, ho subito il feeling con le gomme fredde che gli altri non riescono ad avere. Con la Yamaha, quando avevo un passo uguale agli altri, questo vantaggio iniziale mi faceva vincere le gare; adesso che ho un ritmo chiaramente inferiore ai rivali, duro meno giri, prima o poi mi riprendono. Ma quando avrò un passo più costante, essere veloce all’inizio rappresenterà un vantaggio».
Il pregio che ti ho sempre riconosciuto è la tua determinazione - secondo me addirittura impressionante - la voglia che hai di riuscire anche con Ducati. E’ sempre stato un po’ così in tutta la tua carriera: ogni volta che prendi una “batosta”, ne vieni fuori bene: è una qualità che ti riconosci?
«Grazie. Ho un grandissimo orgoglio, non mi piace rimanere in una situazione difficile per tanto tempo. Quando sono in difficoltà, lavoro sempre di più per trovare una soluzione: credo che dipenda anche dalla tua filosofia e mentalità. Ho sempre la motivazione per essere più completo, per fare qualcosa di più difficile di quello che facevo prima. Con Yamaha ho vinto tutto, non avevo più niente da dimostrare e ho preso questa sfida con filosofia. Mi sono detto: “Se non va bene all’inizio, non perdiamo la calma, lavoriamo: sicuramente, prima o poi andrà bene”. Non sono andato nel panico perché, invece di lottare per il mondiale, faccio decimo… Così, lavorando, ogni volta mi avvicino. Schumacher è arrivato alla Ferrari dopo aver conquistato due titoli, ma ha impiegato cinque stagioni prima di riuscirci con la Ferrari. Non è semplice. In MotoGP, in questo periodo di così alto livello, devi avere tutti i pezzi del puzzle a posto: se non ce li hai, non puoi lottare contro questi fenomeni».
Ma c’è mai stato un momento che ti ha fatto dire: “Chi me l’ha fatto fare, perché non sono rimasto in Yamaha”?
«No, perché la motivazione e il fuoco interiore che mi ha dato la Ducati, non l’avrei avuto se fossi rimasto con la stessa squadra. Non perché Yamaha non mi ha trattato bene o ha fatto qualche ingiustizia nei miei confronti: tutt’altro. Yamaha mi ha sempre trattato benissimo, avevo una buonissima relazione con Lin Jarvis, con gli ingegneri, i tecnici e tutta la squadra. Ho sempre avuto la stessa moto del mio compagno di squadra e mi hanno sempre rispettato. Ma anche questo è come un lavoro: se stai per tanti anni con le stesse persone, facendo la stessa cosa, piano piano perdi un po’ di quel fuoco interiore. Ecco, perché non mi sono pentito, ma sono sempre più convinto che con il grande lavoro che stiamo facendo, riusciremo a vincere».
Un altro aspetto che mi colpisce è la tua umiltà, la voglia di metterti in discussione anche nei confronti di Michele Pirro, un pilota veloce ma molto meno blasonato di te.
«Non devi avere vergogna di chiedere un aiuto: tutti possono insegnarti qualcosa, non solo i campioni. E’ importantissimo avere qualcuno che veda le cose da fuori: Pirro, inoltre, guida la mia stessa moto, sa come reagisce la Ducati, cosa devi fare o cambiare per migliorare qualcosa. E lui è uno veloce, gira a meno di mezzo secondo da noi. In Yamaha mi trovavo benissimo con Zeelenberg, ma lui era 25 anni che non pilotava, non ha mai guidato una MotoGP».
Dovizioso ti ha sorpreso, te lo aspettavi così competitivo?
«Dovi è sempre stato forte: ha vinto il titolo 125, ha lottato con me in 250 per il campionato, in MotoGP è sempre stato in grandi squadre e questo significa che la gente lo tiene in considerazione. Diciamo che ha sempre incontrato dei piloti velocissimi e con grande talento come Stoner, Marquez, Rossi, Pedrosa, io stesso, che gli hanno reso la vita difficile e gli hanno impedito di conquistare il titolo. Fa una grande differenza che rivali ti trovi nella tua carriera: se hai la fortuna di correre in stagioni di basso livello puoi magari vincere cinque, sei mondiali ed essere considerato uno dei migliori della storia (ogni riferimento è puramente casuale, NDA?). Se invece arrivi in MotoGP in un momento in cui il livello è altissimo, trovi quattro o cinque “mostri”, magari non vinci nemmeno un titolo… E’ vero, però, che ultimamente Andrea sembra più sicuro di se stesso, conosce meglio la moto e adesso la Ducati è più competitiva di prima: credo che anche le mie difficoltà gli abbiano dato più forza».
Quindi, sei uno stimolo per Dovizioso?
«Credo di sì, e lui ne sta approfittando. Attenzione, però, può essere un’arma a doppio taglio: se succede che prendo confidenza con la moto, può avere l’effetto contrario».
Ti è successo al contrario, ovvero che un compagno di squadra ti abbia stimolato per ottenere certi risultati? Per esempio Rossi…?
«Ho sempre avuto la fortuna di essere più forte del mio compagno di squadra, tranne il primo anno in Derbi, quando non avevo nessuna esperienza e Poggiali era sempre più veloce di me. Ma già dalla seconda stagione sono sempre stato il pilota più forte della mia squadra, anche in 250. Con Rossi, i primi due anni sono stati un po’ complicati: il primo perché non avevo esperienza con le Michelin, il secondo perché lui aveva le Bridgestone. Poi, però, sono sempre stato più consistente di Valentino. Adesso con Dovizioso è come se fossi tornato al passato, a quando avevo debuttato nel mondiale con Poggiali. Ma piano piano sarà più vicino e spero di giocarmela presto con lui e batterlo».
Chi è il favorito al titolo?
«Mi piacerebbe lo vincesse Dovi, ma credo che il favorito sia Marquez».