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Non capita tutti i giorni di vedere MotoGP e Superbike girare entrambe sulla stessa pista – contemporaneamente, quindi con le stesse condizioni meteo e la stessa finalità – in maniera da rimuovere tanti "se e ma" da un confronto che a più riprese ha tenuto banco fra gli appassionati. Più o meno tutte le volte in cui i due campionati hanno avuto riscontro di pubblico paragonabile, ma soprattutto prestazioni dei rispettivi mezzi vagamente simili.
Era dalla fine degli anni 90, quando le 500 si trovarono minacciate (e qualche volta impensierite in termini di tempi sul giro in qualifica) dalle derivate di serie, che non si verificava una reale prevalenza della Superbike sul prototipo da GP come è successo a Jerez venerdì, quando Tom Sykes ha piazzato un “tempone” sulla sua Kawasaki capace di renderlo più veloce di Marquez e la Honda, impegnati anche loro nei test sulla pista andalusa.
Mettiamo in chiaro le cose: per importante che sia la prestazione di Sykes, non è veritiera dal momento che di "se e ma", anche nel confronto di venerdì, ne restano tanti. Nella fattispecie, Sykes ha sparato il suo giro migliore in condizioni ideali, presumibilmente a serbatoio mezzo vuoto e con gomme da tempo, probabilmente con la finalità di sferrare un altro attacco in quella guerra d’attrito con il compagno di squadra il cui premio in palio è la leadership nell’orientamento dello sviluppo e, conseguentemente, un vantaggio nella caccia al titolo iridato 2016.
Le MotoGP non solo non dispongono di gomme da tempo, sparite dall’avvento del monogomma nel 2009, ma sono anzi alla ricerca della migliore strategia interpretativa delle nuove coperture Michelin, che da quest’anno prendono il posto delle Bridgestone. Un compito che non premia sicuramente attacchi coltello fra i denti, ma piuttosto un lavoro in assetto da gara, fatto di prove e controprove per acquisire i dati necessari ad iniziare il lavoro in attesa dei test di Sepang a fine gennaio.
“Certo, certo, tutte scuse” penseranno i sostenitori della SBK, ma francamente non ce la sentiamo di appoggiare questa posizione. Basta un rapido controllo per verificare come il miglior tempo della MotoGP a Jerez sia inferiore di circa due secondi rispetto al riferimento di Marquez, e che al contrario i primi test con le Michelin a Valencia, subito dopo la fine del campionato, abbiano dato come responso tempi sul giro grossomodo paragonabili – anche se ottenuti in maniera diversa, vedremo poi il perché – a quelli staccati con le Bridgestone.
Allora perché qui hanno girato due secondi più lenti? Risposta semplice: perché se si vogliono sfruttare davvero a fondo le Michelin è necessario ripensare tanto lo stile di guida quanto le moto. Per capire quanto bisogna fare un passo indietro, tornando al 2008 – l’anno in cui Valentino Rossi ottenne di passare a Bridgestone sulla sua Yamaha M1.
A fine 2007, dopo la sonora sconfitta incassata da Yamaha ad opera del pacchetto Casey Stoner-Ducati Desmosedici-Bridgestone, molti erroneamente avevano attribuito ad uno dei primi due fattori i maggiori meriti in un trionfo senza precedenti. Il manico di Stoner e la velocità della Ducati in rettilineo – ottenuta grazie ad un’interpretazione più aggressiva del nuovo regolamento 800 – sembravano ciò che aveva portato i due ad ottenere il loro primo titolo iridato in MotoGP.
Al contrario, Rossi aveva invece insistito nel chiedere “le gomme di Stoner”. Non genericamente le Bridgestone, attenzione, ma proprio quelle usate sulla Ducati. All’epoca, infatti, la Casa giapponese portava avanti sviluppi differenziati per ciascuna moto. Le Bridgestone montate sulla Ducati, quelle con l’anteriore “RJ”, non erano uguali a quelle usate da Suzuki, Kawasaki o Honda. Essendo state pensate per la Desmosedici, moto da sempre caratterizzata da una distribuzione dei pesi diversa da tutte le altre per la sua configurazione motoristica e per il posizionamento del propulsore nel telaio, erano contraddistinte da un anteriore dotato di grandissimo grip, e di un posteriore invece molto più “duro”.
Come mai? Semplice: con una distribuzione dei pesi sbilanciata verso il posteriore (in rapporto naturalmente alle altre MotoGP) la Desmosedici faticava a dare carico all’avantreno, e richiedeva quindi una gomma che garantisse grande aderenza. Al contrario, avendo un retrotreno molto caricato, era non solo sufficiente, ma anche necessario fornire uno pneumatico posteriore più rigido e “duro” di mescola, che non si usurasse anzitempo per la maggiore aderenza creata dal peso sul posteriore e che la distribuzione dei pesi della Ducati faceva comunque lavorare nella maniera ideale.
L’adozione delle Bridgestone da parte della Yamaha non è quindi stato un procedimento indolore. In Qatar Valentino Rossi si esibì in una gara a gambero: partì non troppo forte, rimontò ma sul finale vide calare bruscamente l’aderenza della gomma posteriore trovandosi ad arrancare, perdendo posizioni e chiudendo quinto. A Jerez, nel secondo GP della stagione, i più attenti notarono una M1 con il registro del tiro catena a fondo corsa e la ruota posteriore più vicina possibile al motore. Taratura compensata da una forcella molto avanzata grazie a nuove piastre forcella. Tutte mosse che facevano parte del tentativo di spostare il motore all’indietro – relativamente al complesso moto – e dare più carico al retrotreno.
Solo dopo il Gran Premio del Portogallo (in cui il team di Rossi corse con lo stesso assetto) arrivarono telaio e forcellone nuovi, che permisero alla M1 di sfruttare al meglio le Bridgestone ottimizzando la posizione del propulsore, e quindi il carico sulle gomme, recuperando la possibilità di lavorare sulle tarature di fino. Sul finire della stagione anche il team Honda, protagonista del clamoroso cambio di fornitore in corso d’opera con Dani Pedrosa, iniziò quel tipo di lavoro che completò solo molto dopo, approssimativamente ad inizio 2010.
Il cambio di pneumatici di cui è protagonista oggi la MotoGP è identico – ma di segno opposto – a quello cui abbiamo assistito sei anni fa, data la filosofia agli antipodi che caratterizza le Michelin. Le prime indiscrezioni successive ai test di Valencia ci parlando di tante scivolate con identica dinamica: l’anteriore si comporta alla perfezione in staccata ed inserimento, fasi in cui la ciclistica lo carica correttamente. Il problema si manifesta non appena il pilota punta il gas – il posteriore Michelin, dotato di un grip eccezionale, “spinge”, scaricando l’anteriore che perde così bruscamente aderenza mandando il pilota faccia a terra.
Gomme non all’altezza? No, sono ottime, semplicemente nate per essere sfruttate con ciclistiche antitetiche in termini di distribuzione dei pesi. Ha ragione Andrea Dovizioso quando dice che i piloti dovranno lavorare per adattare il loro stile di guida, ma anche le Case costruttrici dovranno darsi da fare non poco per definire nuove ciclistiche, perché il problema sembra essere difficilmente aggirabile dal solo pilota.
Semplificando molto la questione, vedremo MotoGP che tenderanno a spostare in avanti il propulsore con forcelloni più lunghi e forcelle più vicine. Difficilmente però si tratterà di un processo rapido ed indolore, perché il livello di estremizzazione delle MotoGP attuali fa sì che il millimetro sia già un’approssimazione mal tollerabile.
Aspettiamoci una stagione di grande incertezza tecnica. Non saremmo sorpresi se le Case che corrono con quadricilindrici in linea (per loro natura marginalmente più semplici da spostare longitudinalmente nel telaio rispetto ai propulsori con cilindri a V) si trovassero già più vicine ad un assetto stabile rispetto a Honda e Ducati. Ma soprattutto non vediamo l’ora che si arrivi ai test e alla prima gara del Qatar: questa situazione potrebbe finalmente riportare l’attenzione sulla tecnica e sullo sport, allontanandola dalla polemica...