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Si sente dire che un team satellite non vincerà mai un titolo mondiale della top class, lo ripetono in televisione e sui social anche esperti di peso, ma non credo che questa certezza abbia davvero senso. Perché il team satellite non è più quello storico di una volta, oggi è una emanazione della squadra ufficiale e già l’anno scorso, con Franco Morbidelli, Petronas sfiorò l’impresa. Lo ricorderete di sicuro: il team satellite della Yamaha vinse sei GP nel 2020 (tre con Quartararo e tre con Morbidelli) mentre al team interno andò una sola vittoria con Maverick Vinales.
Per capire cosa sia oggi un team satellite basta guardare al team Pramac: le moto fornite alla squadra di Campinoti sono identiche a quelle del team interno, molti dei tecnici coordinati da Francesco Guidotti sono quadri interni della Ducati. Del resto, persino nel team Avintia/Esponsorama il capo tecnico e l’elettronico dei piloti sono uomini Ducati. E va sottolineato che i piloti Pramac sono legati con il contratto direttamente a Borgo Panigale.
Dunque uno come Johann Zarco potrebbe vincere il titolo mondiale piloti? Certamente sì. Per la Ducati sarebbe uno smacco? Macché, a mio personale parere sarebbe un boccone un po’ indigesto soltanto per i piloti ufficiali, che nel team interno hanno qualche teorico vantaggio: un filo più diretto con il test team, qualche eventuale priorità nell’impiego degli aggiornamenti, personale tecnico più numeroso.
Il team satellite è cambiato molto negli ultimi anni anche per la Honda. HRC ha con il team LCR di Lucio Cecchinello un rapporto analogo a quello che lega Pramac alla Ducati: i piloti sono sotto contratto con Honda e tutti hanno moto ufficiali a disposizione. Anche Yamaha ha in Petronas un validissimo partner: i dati sono in comune per tutti e quattro i piloti, però lì soltanto Rossi ha le moto factory mentre Morbidelli (legato al team dal contratto) dispone delle moto dette Spec A.
Negli altri casi: KTM si sta avvicinando al modello Honda e Ducati, ma il ritardo nell’arrivo del telaio evoluzione al team Tech3 rivela qualche limite. Se Ducati e HRC hanno imboccato la strada giusta per evolvere le loro MotoGP più rapidamente, anche Aprilia vorrebbe fare altrettanto, ma Gresini Racing non ha ancora firmato: Noale potrebbe ritrovarsi con sole due moto del 2022, come del resto Suzuki.
Certo, per trovare l’ultimo caso di un team satellite che conquista il titolo mondiale della top class bisogna tornare indietro di vent’anni. Formalmente infatti è quello del 2001, con Valentino al secondo anno sulle Honda nell’ultima stagione della classe 500 a due tempi. In realtà va detto che quel team iridato -nato su spinta della filiale italiana e da questa gestito con Nastro Azzurro sponsor principale - tanto satellite non era, piuttosto si trattava di una vera emanazione della HRC: le NSR erano ufficiali e tutti i tecnici erano quelli che avevano seguito Mick Doohan fino al suo ritiro.
Jeremy Burgess era stato il capo meccanico dei campioni del mondo Freddie Spencer e Wayne Gardner, prima di lavorare con il connazionale Doohan e conquistare con lui cinque titoli consecutivi tra il ’94 e il ’98; il tecnico australiano aveva un contratto con HRC come del resto i suoi ragazzi, e trascorreva gran parte dell’inverno in Giappone per montare personalmente le moto della stagione successiva.
I piloti ufficiali Honda, in quel 2001, erano Alex Crivillé e Toru Ukawa. Che Valentino surclassò vincendo ben undici GP dei sedici disponibili, mentre tre ne vinse Max Biaggi con la Yamaha, due Barros (Honda Pons) e uno Gibernau con la Suzuki. Dall’anno successivo saremmo passati alle mille quattro tempi, con una prima stagione (2002) aperta anche alle ultime 500.
Erano dei team satellite quelli che negli anni Settanta e Ottanta conquistarono la maggior parte dei titoli iridati nella classe 500? In un certo senso sì, perché erano squadre private di proprietà personale di Giacomo Agostini, di Kenny Roberts, o prima ancora di Roberto Gallina ed altri; squadre che, spesso in esclusiva, gestivano le moto factory e non factory di produzione giapponese nel campionato del mondo. Arrivarono ai titoli perché le case nippo, tranne rare eccezioni, in quegli anni fecero un passo indietro: non parteciparono direttamente ai GP e decisero di fornire le loro moto (a pagamento) a squadre esterne, generalmente ben imbottite di denaro grazie a potenti sponsor.
Fu così che Ago, con il grande Eddie Lawson e il supporto di Iwata, potè conquistare tre titoli della 500 nelle stagioni 1984, 1986 e 1988. In quegli anni non era la Yamaha ma era la Honda HRC a partecipare direttamente al mondiale: lo aveva fatto rientrando nel ’79 con l’affascinante ma fallimentare NR500 a pistoni ovali, poi dall’82 con la NS tre cilindri di Spencer e Lucchinelli.
Con la partnership della Suzuki e grandi capacità manageriali, Roberto Gallina era arrivato con la sua squadra ai titoli mondiali di Marco Lucchinelli (1981) e Franco Uncini (82); così come il team britannico Heron era stato il supporto dei due titoli mondiali del compianto Barry Sheene nel ’76 e nel ’77, i primi in classe 500 per la Suzuki.
All’inizio degli anni Settanta, va ricordato, la Yamaha era scesa direttamente in campo nella 500, e non a caso è stata anche la prima giapponese a conquistare il titolo, nel 1975 con pilota Agostini e coordinamento tecnico di Rodney Gould. Ci aveva provato con il compianto Jarno Saarinen nella stagione 1973, ci riprovò con l’asso italiano, ma preso il titolo cambiò strategia e appiedò il 15 volte iridato. Bella riconoscenza: Yamaha passò le YZR 500 in gestione al team Venemotos, pilota Johnny Cecotto, e più avanti si affidò alla filiale USA per l’esordio vincente di Kenny Roberts e quindi i tre titoli consecutivi del marziano dal’79 all’80.
Più indietro nel tempo, negli anni Cinquanta e Sessanta, tante erano le case direttamente coinvolte nel mondiale, basta ricordare le nostre Gilera, Mondial o Moto Guzzi. In particolare, nella classe 500 è stata la MV dei conti Agusta a fare il bello e cattivo tempo, cominciando a vincere nel 1956 con John Surtess e finendo con Phil Read nel ’74. Ci provò la Honda, a contrastarla negli anni Sessanta, vincendo i GP ma non i titoli della classe “regina”.
Chiudo con una curiosità: per qualche stagione le MV ebbero sul serbatoio la scritta Privat, tentando di spacciarsi per moto private gestite da squadre esterne. Gli storici si dividono su questa storia. C’è chi dice che fu un escamotage per rientrare nel ’58 dopo il ritiro corale dell’anno prima: MV si era accordata con Guzzi, Gilera e Mondial ma poi cambiò idea. Altri, come Fabio Avossa, datano invece la vicenda al 1961, quando sembrava che i giapponesi potessero arrivare sul mondiale con mezzi giganteschi e allora il conte, impressionato, provò formalmente a farsi da parte. In ogni modo poi la scritta sparì. Fu utilizzata, pare, ancora un volta nel 1964: quando Mike Hailwood attaccò nel catino di Daytona il record dell’ora in sella alla 500. Sembra che fosse una sua iniziativa, di certo registrò un nuovo primato a 233,0 kmh.