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SPIELBERG – E’ un ragazzo piacevole, sincero e diretto: Maverick Vinales, 22 anni di Figueres, paese al confine con la Francia, sta provando a vincere il suo primo titolo iridato in MotoGP, dopo aver conquistato quello della Moto3 nel 2013 e aver fatto faville in Moto2 nel 2014. Non ha conquistato il titolo, ma è andato così forte che Davide Brivio lo ha portato subito in MotoGP nel 2015. Quest’anno il passaggio dalla Suzuki alla Yamaha: la vita di Vinales è cambiata completamente. Nel 2016 qualsiasi risultato andava bene, oggi lui pensa solo al titolo, ne è addirittura ossessionato. Come ammette lui stesso in una intervista esclusiva concessa a moto.it.
Maverick, cominciano dalle origini: puoi raccontare, brevemente, ai lettori di moto.it come sei arrivato al mondiale?
«Ho iniziato a tre anni, spinto dalla famiglia: assieme a mio cugino Isaac (oggi pilota in Moto2, NDA) ho cominciato a correre con le minimoto. Poi ho fatto 4, 5 anni di motocross: andavo forte, ma ero troppo piccolo. Seguivo in tutto mio cugino, più grande di me di un anno: lui provò un giorno una 50 in strada e decise di proseguire in pista. Io feci lo stesso, anche perché per la mia famiglia era più semplice farmi correre in pista, piuttosto che nel cross».
Ma per correre ci vogliono tanti soldi: ne avevate tanti in famiglia?
«No, ma ho avuto la fortuna di essere stato ingaggiato da “Metrakit” (costruttore di minimoto spagnolo, NDA): da 7 a 12 anni non abbiamo speso soldi per andare alle gare e ho avuto la possibilità di mostrare le mie potenzialità. Poi, passo dopo passo, sono arrivato al mondiale».
E adesso sei in MotoGP: ci vuole più talento, coraggio o dedizione?
«Il talento è fondamentale: se non ce l’hai, non arrivi fino alla MotoGP. Poi, però, ti devi applicare al 100%, ci vuole dedizione: è una categoria difficilissima, con tantissima elettronica. Non puoi distrarti».
Quando parlo con te, dopo le prove o una gara, mi colpiscono due cose: 1) quanto sei arrabbiato, soprattutto con te stesso, quando le cose vanno male. E’ sempre stato così?
«Sì, da sempre, fin da piccolo: quando le cose non andavano bene ero sempre arrabbiatissimo, chiedo tanto a me stesso. In tutto, non solo nello sport e nella moto. Quindi quando c’è qualcosa che non va sono arrabbiatissimo con me stesso, non riesco a prenderla serenamente. E’ successo tante volte quest’anno, come per esempio a Jerez».
Non è un po’ troppo?
«Forse sì. Anche perché, le difficoltà di Jerez, tanto per fare un esempio, non erano dovute a me, io non potevo fare di più. Credo, però, che non è solo un lavoro del team fare andare forte la moto, è anche un lavoro del pilota: ecco perché ero e sono così arrabbiato quando non riesco a essere competitivo».
E’ un aspetto sul quale devi lavorare e migliorare?
«Sì, assolutamente. Se voglio continuare a correre per tanti anni, non posso arrabbiarmi così tanto quando ci sono dei problemi. Alla fine stai male psicologicamente e questo non va bene: ecco perché dico che devo migliorare sotto questo aspetto. E’ anche vero, però, che questo lato del mio carattere mi ha portato a conquistare un titolo della Moto3 e alla MotoGP».
Il secondo aspetto che mi colpisce è che da quando sei arrivato in Yamaha sembri ossessionato dal pensiero di dover vincere il titolo; è così?
«E’ un po’ così. La verità è che abbiamo iniziato la stagione molto, molto bene, oltre ogni mia aspettativa. Ho pensato di poter vincere il titolo non dico facilmente, ma quasi, ma non bisogna dimenticare che io non ho l’esperienza per lottare per un traguardo così importante: l’inizio del campionato ci aveva un po’ fatto dimenticare questo aspetto. Quindi sì, un po’ la vivo come un ossessione, ma se vuoi vincere devi essere un po’ ossessionato».
Ma correre in moto, rimane un divertimento?
«Certamente! Rimane un divertimento e quest’anno mi sono divertito tanto in molte gare».
I due anni in Suzuki li vivi come due anni importanti di esperienza o come due anni persi per provare a conquistare il titolo?
«Due anni importantissimi per il mio cammino: ho conosciuto grandi professionisti come Davide Brivio, ma più in generale come tutta la mia squadra. Ho fatto tanta esperienza».
Quindi non dici: ah, se fossi andato subito in Yamaha, avrei già conquistato un titolo?
«No, è stato importante correre con la Suzuki, ho imparato a lavorare: la moto partiva da zero, l’abbiamo portata fino alla vittoria».
Secondo me, il peggioramento delle tue prestazioni è coinciso con il cambio della gomma anteriore fatto dalla Michelin a partire dal GP d’Italia; sei d’accordo?
«Per me è stato un cambio difficile. Avevamo lavorato tutto l’inverno su quelle gomme, avevamo fatto la moto per quel tipo di pneumatici: la nostra Yamaha funzionava benissimo. Tanto bene che avevamo l’opportunità di vincere addirittura ad Austin: significa che la M1 andava veramente forte. Quando hanno cambiato le gomme sono iniziate le mie difficoltà: abbiamo provato tante cose differenti, senza trovare una vera soluzione. E anch’io mi ero perso un po’, non riuscivo a essere efficace con il mio stile di guida: non era adatto a queste gomme».
Hai vissuto questo cambiamento come un dispetto?
«No, un dispetto no, non è stato fatto contro di me. Ma per me è diventato difficile ritrovarmi indietro: al Montmelò ho finito decimo, quando lì pensavo di vincere! Ma il peggio è passato, adesso mi trovo bene: se facciamo tutto al 100% abbiamo la possibilità di giocarci il titolo».
E veniamo il telaio: anche questo cambiamento l’hai vissuto male, l’ha sentito come imposto dal tuo compagno di squadra?
«No, questo no. Per me è stato complicato capire i cambi che abbiamo fatto: ne abbiamo fatti troppo e in troppo poco tempo. Per me è stato difficile prendere fiducia e ad Assen abbiamo pagato l’errore di correre con il telaio nuovo senza averlo provato bene prima».
Adesso però la vedi più come all’inizio del campionato, ti senti più forte e competitivo?
«Domenica mattina a Brno, nel warm up, abbiamo trovato una buona strada (Vinales non ha nascosto di aver copiato in qualche modo gli assetti di Rossi, NDA), sicuramente non commetteremo gli errori fatti in passato».
Bisogna correre contro un “nemico”, gli avversari sono tutti da “odiare”, sportivamente parlando, naturalmente?
«Io non odio nessuno, nemmeno in pista. E’ chiaro che all’ultimo giro non penso a nulla, solo a vincere e mi dimentico se devo battere il 46, il 93, il 99 o qualcun altro, ho in testa solo la vittoria. Ma ho sempre grande rispetto dei miei rivali e credo che loro ce l’abbiano di me».
C’è una domanda alla quale non ne puoi più di rispondere?
«Sì, quella sul telaio».
Si può vincere in Austria?
«Ho buone sensazioni, molto meglio che a Brno. Come mi aspettavo, Dovizioso, Marquez e Pedrosa vanno forte, senza dimenticarsi di Rossi, che alla domenica è sempre lì. Ma noi siamo lì, ce la possiamo giocare».