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Ciao a tutti! Distratto da tanti altri aspetti tecnici e umani, da poco ho notato un dettaglio: il pilota, quando cade, rientra al suo box con la tuta segnata dal volo, e magari conclude il turno di prove in quelle condizioni, con il terriccio nelle cuciture e i segni neri sulla schiena. Ma poche ore dopo, eccolo in sella alla sua moto con la tuta intonsa. A uno come Márquez sarà capitato di cambiare quattro tute in un solo fine settimana, e d'altra parte non si scherza, ogni pilota deve avere a disposizione un numero congruo di tute di pelle, perché questa è una questione di sostanza ma anche di forma: tutti gli sponsor hanno il diritto di apparire nelle migliori condizioni di visibilità in ogni immagine televisiva e in ogni fotografia.
Intorno alle tute c'è dunque un lavoro incredibile, sia nel paddock sia a casa. Le piccole riparazioni si possono fare in trasferta - così come la pulizia, l'asciugatura dentro un vero e proprio forno, o il ripristino degli elementi dell'air bag attivato dal volo - e i nostri maggiori produttori, che vestono e proteggono con le loro tute in pelle di canguro il novanta per cento dei piloti, hanno attrezzato da anni i loro grandi truck del racing service. Anche se, naturalmente, è soltanto in fabbrica che si può provvedere alla sostituzione del pezzo danneggiato, smontando la tuta e ricostruendola come nuova in sartoria. Ed è un microcosmo frenetico, se ci pensate, dettato dalle esigenze sempre più specifiche di un mondo ultra professionale.
Ne sono successe, di cose, da quando il mitico Geoff Duke infilò per primo una tuta di pelle, nel 1950. I libri di storia raccontano che la fece realizzare da un mastro pellaio inglese, tale Barker, e saltò in sella alla sua Norton Manx sicuro di avere un bel vantaggio aerodinamico. I suoi concorrenti indossavano giacche in pelle di capra, guanti in pelle di daino, pantaloni alla zuava e stivali stringati. Concetti come la sicurezza e la protezione erano del tutto sconosciuti, agli inizi del campionato mondiale: il casco d'ordinanza era il Cromwell a scodella, in cocco e sughero, e d'altra parte le piste erano tanto pericolose che in caso di caduta ti avrebbero salvato soltanto il caso o il Padreterno se ci credevi.
Anni fa, realizzando un video sulle leggendarie MV Agusta, invitai in pista Ago e Ubbiali con il loro abbigliamento dell'epoca. Mino si presentò con casco integrale e tuta in pelle bovina con elementari protezioni, due bei cimeli degli anni Settanta; Carlo Ubbiali, nove volte campione del mondo nelle classi 125 e duemmezzo degli anni Cinquanta, apparve strizzato in una tuta nera che aveva, come massima soluzione protettiva, un doppio strato di pelle sulle spalle e sui gomiti. Ubbiali mi disse che una buona tuta di pelle dei tempi suoi era quella che, piegata con cura, stava dentro la semisfera del casco Cromwell. Girò in pista un bel po', non si riusciva a fermarlo e poi, rimessi gli abiti borghesi, l'arzillo vecchietto ci dimostrò che la sua era davvero una buona tuta. Stava tutta dentro il casco. "Non arriva ai settecento grammi di peso - aggiunse - perché l'importante per noi era che fosse il più sottile possibile".
Un altro dettaglio che forse non sapete è che in Europa la tuta di pelle è rimasta rigorosamente nera fino alla prima 200 Miglia di Imola, 1972. Fu infatti il grande Checco Costa, il padre del dottorcosta, a obbligare i piloti: tutti con la tuta colorata, come usavano da qualche anno gli americani. Il bicolore era la minima soluzione ammessa. E Walter Villa, che era fatto a suo modo e non tollerava troppo le imposizioni, prese una bomboletta spray di vernice bianca e nella corsia box, con tutto il teatro che sapeva inventarsi, spruzzò la parte alta della tuta che aveva addosso, dalla vita in su. L'ho visto coi miei occhi, e però più tardi, durante la gara, la verniciatura bianca poco professionale si trasformò in un infelice chiazzato.
La tuta da moto. Che roba. Era una seconda pelle per difendersi dall'aria e andare un po' più forte, è diventata un guscio vitale e con una intelligenza propria.