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Ciao a tutti! Adesso, viste le novità di Eicma, possiamo immaginare che tipo di anno sarà il 2019 per la moto. Tante case hanno lanciato la loro sfida, e quella che più ha colpito la mia fantasia è la Ducati. La nuova Panigale V4R non è soltanto una magnifica supersportiva mille da oltre 220 cavalli, una meraviglia tecnologica capace di arrivare a 16.000 giri, è soprattutto la quattro cilindri che cambia la storia di Borgo Panigale nella Superbike. Dopo trenta stagioni a due cilindri, trent’anni a giocare contro le quadricilindriche sul filo dei risultati e dei regolamenti, dal 2019 si svolta e ci si allinea alla pari con la mattatrice Kawasaki e tutto il resto della compagnia.
Non sento alzarsi le proteste dei ducatisti più integralisti ed è giusto così: adesso che la Desmosedici è vincente, adesso che probabilmente è la migliore MotoGP, anche i più puri hanno accettato il principio che “se vuoi vincere devi saper cambiare”. Noi tutti non dimenticheremo mai le gloriose bicilindriche che hanno dominato la categoria, la 851 di Raymond Roche e la 888 di Doug Polen, la 916 del primo titolo di Carl Fogarty e poi la 996, e ancora la 999 che per primo premiò Neil Hodgson e la 1098 di Troy Bayliss. Con quest’ultima moto Carlos Checa ha chiuso il ciclo: il titolo 2011 per il team Althea è stato anche l’ultimo per Ducati nella SBK, poi troppe stagioni senza allori. E adesso che si apre una nuova epoca, mi piace ricordare che il primo pilota vincente con la rossa bicilindrica tra le derivate dalla serie è stato il mio amico Marco Lucchinelli da Ceparana (La Spezia).
Marco veniva da tre mediocri stagioni con la Cagiva 500. Dopo il prepotente titolo mondiale 1981 con la Suzuki di Gallina e due anni sulla tre cilindri Honda, deluso e un po’ acciaccato aveva trovato a Schiranna nell’84 un supporto tecnico e soprattutto morale. La moto derivava da una RG Suzuki e non era ancora competitiva, qualche volta si metteva in moto al contrario e partiva in retromarcia, ma Lucchinelli si sa, era un po’ zingaro e si accontentava. Poi i Castiglioni acquistarono la Ducati e il suo marchio nel 1985: l’azienda era asfittica, perdeva parecchi quattrini, sfornava poche migliaia di moto e produceva i diesel industriali per le motopompe e le motozappe, nonché i motori per l’Alfa Romeo. Il quadro era deprimente, oggi si fatica ad immaginarlo, ma i fratelli erano tosti; il trentaquattrenne Lucchinelli fu messo in sella alla 851, vinse la Battle of the Twins di Daytona nel 1987, si iscrisse al neonato campionato. Il 3 aprile del 1988 si disputa la prima gara della storia a Donington, Davide Tardozzi con la Bimota vince gara1 e Marco si impone nella seconda manche. Il campione di quel primo anno, per inciso, fu Fred Merkel con la Honda RC 30 di Oscar Rumi; due anni dopo, con Lucchinelli team manager, fu il francese Raymond Roche a portare a Bologna il primo mondiale della Ducati tra le derivate di serie: in totale quattordici titoli piloti e diciassette costruttori, senza contare i campionati nazionali e la Superstock.
Anche se i tempi non sono facili la Ducati oggi fila a gonfie vele e i tedeschi, di cui molti tra i nostri lettori diffidavano, portando i capitali non hanno snaturato il prodotto e la filosofia. Non ci fossero stati i fratelli Castiglioni e gente come Lucchinelli (e tanti altri che hanno lavorato nell’ombra) chissà, forse a Borgo Panigale si farebbero ancora i motori diesel per le motozappe, e magari Claudio Domenicali –in Ducati dal ’91 quando era un giovane ingegnere- avrebbe guardato altrove e trovato un impiego più lontano da casa. Meno male che è andata così e che il futuro, a cominciare dalla V4R, ci appassiona.