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Anno nuovo, vita nuova – via le CRT, esperimento malriuscito che malgrado correttivi e aggiustamenti vari non è mai riuscito a decollare, arrivano le Open. Sulla carta un altro progetto destinato a dare vita ad un altro campionato nel campionato – e non nell’accezione positiva del termine – all’atto pratico, se vogliamo essere un po’ meno superficiali, moto che potrebbero infastidire spesso e volentieri le ufficiali. A patto che, naturalmente, in sella ci siano i piloti giusti.
Perché tanto ottimismo? Dopotutto i test di Valencia hanno offerto un quadro in chiaroscuro, con le Yamaha M1 2013 in configurazione Open capaci di offrire ottime prestazioni mentre le Honda RCV1000R, le “vere” open, hanno incassato distacchi ben più pesanti. A prescindere dalle considerazioni in merito a quale elettronica stessero realmente utilizzando le Yamaha Open, ma anche all’opportunità di attendere il debutto delle Honda con ciclistica evoluta (per contenere i costi le RCV1000R vengono consegnate con componentistica per sospensioni e freni non esattamente all’altezza della categoria) è importante notare come sia poco realistico aspettarsi che le Open possano competere con le MotoGP sul giro secco. Un po’ perché il livello dei piloti sarà difficilmente paragonabile, un po’ perché quando i rubinetti sono tutti aperti le Open pagano, in effetti, solo svantaggi.
Tutt’altro discorso nel momento in cui si inizia a pensare ai 110 chilometri della distanza di gara. L’imposizione del limite di capienza per i serbatoi nel 2007 – in realtà in vigore anche prima, ma talmente elevato da risultare pleonastico – si è prevedibilmente dimostrato il più efficace vincolo regolamentare per limitare le prestazioni di moto sempre più veloci. La contropartita, purtroppo, è stata uno sviluppo vorticoso dei sistemi elettronici di gestione del motore, necessari per risparmiare ogni stilla di carburante non strettamente indispensabile alla prestazione sulla distanza di gara. Ma anche di sistemi come il cambio seamless, che oltre al miglioramento in accelerazione offrono anche positivi risultati in termini di consumo come vi abbiamo raccontato nella nostra disamina a riguardo.
Sistemi che – come sempre accade quando si deve aggirare un regolamento molto restrittivo – hanno portato i costi a levitare in maniera spaventosa ma soprattutto a dare vantaggi competitivi incolmabili (almeno in tempi brevi, stanti i vincoli sullo sviluppo) a chi ha potuto investire più risorse sullo sviluppo tecnologico.
La necessità di correre dietro ai primi della classe ha portato a gestioni tiratissime del carburante: con l’arrivo delle 800, e del relativo limite di 21 litri di carburante, sono apparse strategie e sotterfugi vari per risparmiare ogni goccia, ma anche aggirare il limite sfruttando le esperienze fatte in Formula 1. Si sono visti piloti volare a terra nel giro di ricognizione per colpa di elettroniche che tenevano il motore magrissimo al fine di risparmiare qualche goccia di benzina, ma anche furbacchioni che inserivano carburante praticamente congelato nel serbatoio e ne gestivano l’inevitabile espansione sotto il caldo della griglia di partenza utilizzando serbatoietti di compensazione nascosti nel telaio, per finire con altri che raffreddavano con precisione chirurgica una sola zona del serbatoio e “influenzavano” la misurazione (introdotta successivamente alla scoperta dei già citati furbacchioni, a metà 2007) facendo si che avvenisse solo nella zona alta. Per non rischiare di danneggiare la pompa del carburante, o almeno questa era la scusa ufficiale…
Verso la metà dell’era delle 800 si è iniziato a sentire di piloti penalizzati per peso ed altezza. Piloti che lamentavano di elettroniche particolarmente intrusive nella seconda metà della gara, quando la centralina limitava la tutta apertura delle farfalle pur di tagliare il traguardo, ma anche piloti che sempre più spesso finivano per restare a piedi durante il giro d’onore. La situazione si è gradualmente estremizzata, e sicuramente non migliorerà con l’ulteriore restrizione del limite di carburante imbarcabile a 20 litri.
Si è iniziato a sentire di piloti penalizzati per peso ed altezza; la situazione si è gradualmente estremizzata, e sicuramente non migliorerà con l’ulteriore restrizione del limite di carburante imbarcabile a 20 litri
Ecco perché le Open, a fronte dell’inevitabile svantaggio derivante da una componente tecnica meno sofisticata rispetto alle Factory, potrebbero risultare penalizzate in prova (pur disponendo della gomma posteriore extrasoft) ma competitive, se non avvantaggiate, sulla distanza di gara. Perché 24 litri invece di 20 significa avere un 20% di carburante in più da spendere come e quando si desidera: sui lunghi rettilinei (dato che fino all’inserimento della quinta l’elettronica taglia la potenza per evitare le impennate, che non servono a niente e sprecano benzina) ma anche in percorrenza ed uscita di curva, dove un motore più grasso rende la moto ben più fluida e guidabile nell’azione.
A Sepang, pista molto veloce con due rettilinei quasi infiniti che si arrotolano attorno alle tribune, inizieremo ad avere un’idea del potenziale delle Open, ma con ogni probabilità sarà necessario attendere fino alla prima gara – in Qatar, altro circuito con rettilineo aeroportuale – perché si giochi davvero a carte scoperte. Hayden, Redding ed Espargaro forse non riusciranno ad impensierire Lorenzo e Marquez, ma è molto probabile che taglino il traguardo molto prima di quanto non ci si aspetti.
Ed è questo il motivo per cui Ducati – a prescindere da dichiarazioni di facciata che rimandano al termine regolamentare la scelta – sta valutando seriamente la partecipazione con le moto ufficiali iscritte come Open. Un po’ perché una scelta del genere imporrebbe molti meno vincoli in termini di sviluppo della moto, fattore che Ducati tiene ovviamente in grandissima considerazione, un po’ perché quei quattro litri di benzina non risolverebbero sicuramente i problemi di ciclistica della Desmosedici, ma la renderebbe certamente più guidabile e competitiva sull’arco della gara.
Ma c’è anche un altro aspetto di grande importanza in questa situazione: esaurite le considerazioni tecniche è necessario spostarsi su quello politico. Non è infatti un mistero come Honda e Dorna stiano combattendo una guerra d’attrito, con la prima arroccata sulle sue posizioni tanto da arrivare a minacciare un clamoroso disimpegno dalla classe regina, e la seconda impegnata nel tentativo di svincolarsi da una soffocante dipendenza dalle Case costruttrici. Perché? Facile, perché gli interessi di Case ed organizzatore divergono irrimediabilmente da qualche anno. Più o meno da quando le Case attingono ai budget destinati alla ricerca e sviluppo (e non del marketing) e l’organizzatore, al contrario, deve proporre al pubblico uno spettacolo avvincente e gustoso, non una sfida tecnologica fra i colossi delle due ruote.
Proprio questa dipendenza dalle Case costruttrici ha costituito a suo tempo il motivo per la nascita delle CRT. Come giustamente sosteneva Hervé Poncharal – rappresentante dei team impegnati nella classe regina, ma soprattutto partecipante al Motomondiale di lunghissima esperienza – all’epoca dell’abbandono sequenziale di Kawasaki e poi Suzuki, le Case possono smettere di correre senza che la cosa le danneggi se non nell’immagine, mentre i Team devono partecipare per vivere. Facile capire come Carmelo Ezpeleta preferisca avere Team e non Case fra i suoi partecipanti, pur conscio della fondamentale importanza che rivestono le seconde – a differenza di quanto avviene per la Formula 1 – per un Mondiale motociclistico.
Le Case possono smettere di correre senza che la cosa le danneggi se non nell’immagine, mentre i Team devono partecipare per vivere
Honda, al contrario, intende la propria partecipazione al Mondiale come attività di sviluppo tecnologico, imprescindibile dunque da quella massima libertà nella definizione del software all’interno della centralina che Dorna vorrebbe negare attraverso l’introduzione di una piattaforma completamente sotto il suo controllo. Una posizione, quella di Honda, all’inizio apparentemente condivisa da tutte le Case, ma che recentemente non appare altrettanto monolitica: Yamaha si è limitata ad allinearsi (senza troppa convinzione, per la verità) alla dichiarazione Honda, in maniera perfettamente coerente con la filosofia delle Zaibatsu – le megacorporazioni giapponesi, che a fronte di guerre al limite del sanguinoso fra loro rispettano un ordine costituito con rigidità incomprensibile per un occidentale – Ducati sembra invece nettamente più laica nelle sue scelte.
L’ipotesi di una partecipazione in Open da parte di Ducati, al di là dei possibili vantaggi tecnici, avrebbe una risonanza politica ben più pesante: un po’ perché seminerebbe il panico fra gli stati maggiori giapponesi che ben ricordano il blitz tecnico portato a termine dai bolognesi nel 2007, ma soprattutto perché romperebbe il fronte della MSMA, l’associazione che riunisce i costruttori impegnati in MotoGP. E con l’ormai certo arrivo di Aprilia nel volgere di due anni, ma anche con qualche possibile altro debutto eccellente – il regolamento Open viene tenuto d’occhio da molti più di quanti lo ammettano apertamente – il quadro geopolitico della MotoGP potrebbe cambiare in maniera molto rilevante, rivitalizzando un campionato prigioniero della sua stessa sofisticazione, ad opera del suo concorrente più forte.
Il possibile successo delle Open potrebbe essere ricordato, nel futuro, come il fattore scatenante di una svolta storica per la MotoGP. Il tutto, ironia della sorte, ad opera di una categoria fortemente voluta e definita proprio da chi più ha da perdere.