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BURIRAM – Premessa: sono un grandissimo estimatore di Dani Pedrosa. Mi piace come guida, mi piace la sua capacità di adattarsi a moto per lui grandissime e pesantissime, ammiro la sua forza di volontà di tornare in moto dopo ogni infortunio e operazione chirurgica, apprezzo il suo essere sempre se stesso, nel paddock e fuori. Per tutto questo, ritengo Dani un esempio positivo per tutti i ragazzi e gli sportivi in generale. Ci tenevo a intervistarlo prima della sua ultima gara a Valencia: in Thailandia ho avuto questa possibilità.
Dani, ciao. Inizio con una domanda che mi ha fatto mio figlio Leonardo di sei anni: “Papà, Pedrosa come fa a guidare una MotoGP?”. Gli ho risposto dicendo che hai un grande talento, ma non credo che basti…
«Come faccio? Non lo so. Ho sempre avuto il desiderio di fare il pilota e guidare una MotoGP è stata più un sogno che una sfida reale, perché ho sempre saputo che non ero un pilota adatto per la classe regina, per una moto così grande. Però, alla fine, si è visto che anch’io posso fare delle grandi gare, anche se con un po’ di difficoltà, anche in un momento storico con tantissimi rivali forti. Ho sempre provato a seguire la mia strada, sfruttare i miei punti forti, quelli che mi permettono di guidare questa moto in un modo che tante volte si è rivelato positivo, ma in alcune situazioni ho fatto tanta fatica».
Secondo te con le 500 2T saresti stato più avvantaggiato o, se preferisci, meno penalizzato?
«Non lo so, non ho mai pilotato una 500, non posso dire niente. Non ho un’idea precisa su questo: chi l’ha guidata dice che le 500 erano difficilissime in alcuni aspetti, ma era un 2T e io capivo bene quei motori. Mi sarebbe piaciuto provarla: credo che un pilota forte, alla fine, è capace di guidare tutte le moto».
Adesso, purtroppo, le categorie più piccole contano poco o niente; se tu fossi nato qualche anno prima saresti diventato uno specialista della 250, un pluricampione del mondo riconosciuto da tutti come il più forte di quella categoria? (qui Dani non risponde completamente alla domanda, ma la sua analisi è comunque interessante)
«In 250 ho corso due anni e ho conquistato due titoli e di questo sono super felice, perché la 250 era una classe straordinaria, super bella, anche da vedere, non solo come pilota. E’ stata una scuola eccezionale per tutti i piloti: quando la guardavo, c’erano campioni straordinari. E’ vero, adesso mancano un po’ le classi piccole, non hanno grande impatto sui tifosi come ce l’ha la MotoGP. E’ chiaro che la MotoGP, come la 500 prima, ha più interesse, ma quando c’erano la 250 e la 125 la sensazione era che contassero quasi come la 500. E’ chiaro che una MotoGP è molto più difficile da pilota di una Moto3, ma anche quelle sono gare interessanti, con tanti giovani».
Sempre a proposito della 250, Luca Cadalora ha detto una volta che è la categoria perfetta per divertirsi grazie al perfetto rapporto peso/potenza: sei d’accordo?
«La penso esattamente come Cadalora. La 250 è perfettamente bilanciata tra potenza, peso, gomme, anche piste, perché a volte le MotoGP sono troppo grandi e potenti per alcuni tracciati. La 250 era sempre perfetta, sia come velocità in curva, sia in rettilineo, che fosse lungo o corto non importava; come bilanciamento era molto divertente, la guidavi sempre al limite, mentre la MotoGP a volte ti manca un po’ di rettilineo, altre un po’ di gomma, ti manca forza per guidarla al massimo».
Aspetti e belli e brutti di fare il pilota. Cominciamo da quelli belli.
«Punti belli: tutti! Fare il pilota è qualcosa di fantastico. Non è tanto bello quando hai addosso tanta pressione, quando sei in un team ufficiale la stampa e i tifosi ti stanno “addosso”. E’ molto facile da fuori puntare il dito e criticare: questo per me è difficile da gestire. Come pilota hai una sola risposta valida: dare gas. Un altro aspetto un po’ negativo è come sei visto, qual è la tua credibilità: se fai bene, sei apprezzato sotto tutti i punti di vista, se non fai bene vieni subito criticato, anche se la qualità del pilota è la stessa. Questi aspetti per me sono difficili da gestire, non sempre hai la chiave per riuscire a fare subito quello che vorresti: a volte ci vuole un po’ di tempo e da fuori sembra una “vita”, un periodo troppo lungo. Lo sport in generale è così: rimane al massimo livello è molto difficile, ma per me lo è ancora di più salire di un gradino, perché hai addosso la pressione, vieni giudicato, nessuno ti perdona niente, anche se tu fai il pilota solo per la voglia di farlo, non per dimostrare qualcosa agli altri. In quei momenti succedono cose dentro di te che ti fanno imparare: è chiaro che sarebbe bellissimo avere la stima e la fiducia di tutti, ma nello sport è sempre e soprattutto una sfida personale. A volte bisogna riuscire a isolarsi: questi sono i momenti più difficili e meno belli, che però ti fanno crescere. Per quanto mi riguarda, l’aspetto più brutto di fare il pilota è quando ti fai male: io ho sofferto tanto per questo».
Loris Reggiani mi ha detto una volta che quello che gli manca di più da quando ha smesso di correre è l’adrenalina che dava la sfida, guidare la moto, la velocità: hai paura che ti manchi tutto questo?
«Sono sicuro che Reggiani ha ragione, non credo sia possibile trovare un’altra cosa che ti faccia provare le stesse emozioni, perché facciamo una cosa straordinaria e la facciamo molto bene. Puoi provare a fare altro, ma non sarai mai uno specialista come fare il pilota: cambia tanto il livello al quale lo fai. Quando hai la passione per qualcosa e, allo stesso tempo, la puoi fare tanto bene provi sensazioni che non puoi replicare con nient’altro. Adesso, però, non so bene come sarà, è difficile prevederlo».
Come stai vivendo queste ultime gare dal punto di vista emotivo: bene, male, peggio o meglio del previsto?
«E’ stato un po’ più difficile delle aspettative: non è tutto automatico, non è che annunci il ritiro e tutto si sistema. Ogni cosa ha il suo tempo, certe emozioni cambiano poco alla volta».
Ma è difficile venire ai GP o rimane sempre un piacere anche in questo ultimo periodo?
«Non è difficile, ma il “feeling” è un po’ differente. Vediamo come finisce, conta anche come riesci a guidare la moto sulla pista».
Sei sempre stato un pilota Honda dalla prima all’ultima gara: hai il rammarico di non aver provato un’altra moto?
«Sono sempre stato dove volevo stare e, ovviamente, hai sempre un po’ di curiosità di sapere come sarebbe stato in un altro team, ma non ho nessun rimpianto».
C’è una domanda che ti hanno fatto un sacco di volte e alla quale non ne puoi più di rispondere?
«Non una, ce ne sono tante, quasi tutte…» (ovviamente ride).
Il rapporto con la stampa per te è difficile?
«A volte sì. Non mi piace quando il giornalista da per scontato qualcosa. Per esempio: “l’anno scorso qui hai vinto, allora vinci anche quest’anno”. O il contrario: “l’anno scorso hai fatto fatica, quindi la farai anche quest’anno”. Oppure. “Dopo l’ultima gara, si può dire che i tuoi problemi sono finiti”?. Non funziona così. Capisco che uno ha bisogno di fare un titolo, ma non è un ragionamento esatto, la MotoGP non funziona così».
In questi anni, Dani Pedrosa è stato descritto correttamente, la gente ha una corretta opinione di te?
«Non completamente, ma sono contento che i miei tifosi hanno capito che ho sempre “giocato” correttamente, sono sempre stato al mio posto senza fare scorrettezze agli altri per guadagnare una posizione o anche solo un decimo di secondo. Al di là della simpatia o antipatia che uno può avere per me, credo che Pedrosa non sia conosciuto completamente, anche perché io non mi sono aperto del tutto, ma questo fa parte del mio carattere».