Dainese: storia della protezione/2. Il paraschiena

Dainese: storia della protezione/2. Il paraschiena
Nato a seguito del tragico incidente di Ray Quincey, grazie a un’intuizione di Lino Dainese ispirata dalla natura, il paraschiena è diventato un dispositivo imprescindibile. Ripercorriamone gli step evolutivi in quasi 40 anni di storia
7 agosto 2019

Se c’è un’innovazione protettiva che nessuno si sogna di attribuire ad altri se non a Lino Dainese, questa è sicuramente il paraschiena. Tutte le invenzioni nascono dalla necessità, recita un vecchio adagio, e se è vero che la necessità di proteggere la spina dorsale c’è stata fin dagli albori delle corse in moto, c’è stato però un momento preciso in cui la scintilla si è accesa nella mente del fondatore di Dainese.

Siamo nel 1978 a Sint-Joris, in Belgio, su uno di quei circuiti cittadini. Il mercoledì precedente la gara Ray Quincey, promettente pilota australiano, passa da Molvena a ritirare la sua Dainese nuova. Durante le prove Ray grippa e cade a oltre 230 all’ora, restando purtroppo paralizzato e costretto su una sedia a rotelle.

Ray non è il primo a subire un trauma alla spina dorsale, ma è quello che in Lino Dainese scatena la volontà di fare qualcosa perché non accada più. Tutti all’epoca si aspettavano che sarebbero stati i produttori di caschi, più esperti in materia di protezioni rigide, a porre rimedio al problema, ma nessuno si muove.

Ray Quincey, il pilota dal cui incidente è nata la spinta per Dainese a inventare la protezione vertebrale
Ray Quincey, il pilota dal cui incidente è nata la spinta per Dainese a inventare la protezione vertebrale
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Nasce il paraschiena

Dainese quindi si assicura i servigi di Mark Sadler, un designer francese, residente in Austria, allora agli inizi della sua carriera (oggi plurivincitore di Compasso d’Oro) e inventa il primo paraschiena, che trae ispirazione agli esoscheletri che proteggono l’aragosta e l’armadillo.

Vittorio Cafaggi, memoria storica di Dainese
Vittorio Cafaggi, memoria storica di Dainese

E’ questo il momento in cui la storia del paraschiena ha inizio: quello in cui Lino Dainese e Mark Sadler inventano la protezione dorsale. Una protezione che viene naturalmente brevettata e rappresenta di fatto una pietra miliare, forse la più importante, nella storia dell’azienda vicentina, perché determina la virata verso il mondo della sicurezza. Apre una finestra su un mondo fino ad allora percepito, intuito ma ancora non ben definito: la protezione completa del corpo del motociclista.

Di strada da allora ne è stata fatta tanta: lo stesso Vittorio Cafaggi, una vita in Dainese prima di passare a occuparsi di… futuro, al D-Air Lab, ricorda quando nel 1994 recuperò dalle mani del Dottor Costa il paraschiena di John Kocinski, protagonista di una botta pazzesca contro un cordolo ad Hockenheim dopo un volo da brividi. Il pilota dell’Arkansas scese sulle sue gambe dalla barella senza nessuna conseguenza se non qualche inevitabile contusione.

Due paraschiena BAP che hanno protetto Max Biaggi e John Kocinski in due cadute
Due paraschiena BAP che hanno protetto Max Biaggi e John Kocinski in due cadute

Il debutto pubblico

Curiosamente, una dinamica e un destino comune a quell’episodio, protagonista Freddie Spencer a Kyalami, che portò il paraschiena alla ribalta nel mondo degli appassionati. Siamo al GP d’apertura della stagione, dieci anni prima, in Sud Africa. Seconda sessione di prove, e sulla NSR 500 del campione del mondo il cerchio posteriore in carbonio cede all’uscita di una curva da seconda. Freddie viene sbalzato dalla moto, picchia violentemente con la schiena sul cordolo. Si rompe entrambi i piedi - il sinistro in 14 punti, il destro in 16. La schiena è perfettamente a posto, e Freddie ringrazia pubblicamente Dainese per quel paraschiena che gli ha salvato le vertebre.

Ci si immaginerebbe una corsa nei negozi ad accaparrarsi il sistema di sicurezza più efficace allora disponibile. E invece no: servono almeno dieci anni, da quel 1981 in cui il primo back protector Dainese viene messo in vendita, perché la protezione vertebrale prenda piede. Più o meno quello che, vedremo più avanti, sta accadendo con l’Airbag…

Da allora a oggi il paraschiena ha fatto un sacco di strada. Sono arrivate le certificazioni, a due livelli, che all’inizio non esistevano, e sono stati fatti dei progressi incredibili tanto a livello di protettività, di resistenza agli impatti, che di comfort. Sono arrivati anche i paraschiena cosiddetti morbidi, che a fronte di un leggero compromesso in termini di protettività hanno permesso di allargare moltissimo la base di utenza, secondo quel concetto - da sempre caro a Lino Dainese - di protezione democratica.

Se faccio una protezione che nessuno vuole indossare, non proteggo nessuno. Se faccio una protezione, anche solo un filo meno efficace, ma che mille persone indossano, io sto proteggendo mille persone in più. Se tutti i motociclisti indossassero il paraschiena sempre, si avrebbe una riduzione del 60% delle lesioni gravi alla colonna vertebrale - e a dirlo non è Dainese, ma l’Istituto Superiore di Sanità, con un comunicato stampa del novembre 2014.

E a riprova della genialità del paraschiena, basti notare come, sia pure ad anni di distanza, sia stato adottato da tantissimi altri sport dove il problema degli impatti è di rilevanza critica. Sci, Mountain Bike, Parapendio e tanti altri.

I passaggi fondamentali

Il primo paraschiena (Back Protector Pro 7), del 1979, ha una base morbida e una forma leggermente diversa da quella a cui siamo abituati, con quella specie di “codino” che è poi stato abbandonato. E’ durato un bel po’ di anni, perché la prima evoluzione - il BAP - arriva nel 1992.

Si inizia a coprire una superficie più estesa, con una base morbida a contatto con la schiena, placche rigide che distribuiscono la forza d’urto e un materiale di assorbimento inserito fra le due che ammortizza.

Il passaggio successivo, cinque anni dop, (Back Space 3) vede un miglioramento dell’ergonomia con la mobilizzazione della zona a protezione del coccige rispetto alla zona superiore. Il paraschiena si alleggerisce e diventa anche più traspirante: al posto della schiuma, come materiale di assorbimento si inizia ad utilizzare una struttura in honeycomb di alluminio, che fa passare l’aria più liberamente.

Altri cinque anni dopo, nel 2002, arriva il Wave, un prodotto ancora attuale - è lo stesso che attualmente coadiuva il sistema D-Air - e molto popolare. Migliora ancora l’ergonomia, migliora ancora la ventilazione, e infine migliora anche la capacità protettiva. Nel 2013 arriva il Manis, molto più esteso, che rappresenta la scelta di chi non vuole compromessi in termini di protezione ed è disposto a sopportare qualche penalizzazione in termini di peso e traspirabilità.

Presente e futuro

Ormai il paraschiena, è un prodotto maturo, e l’offerta - Dainese ma non solo - ha raggiunto un livello di varietà davvero universale. Morbidi o rigidi, più o meno ventilati, più o meno estesi e protettivi: è questa la realizzazione di quella visione di Lino Dainese. Quella protezione democratica che sognava già quasi quarant’anni fa: ognuno oggi può trovare un paraschiena adatto alle sue esigenze.

E sarebbe il caso che, oltre alle semplici verifiche di capacità protettive, si iniziasse a introdurre anche valutazioni in termini di comfort e ventilazione. Perché se l’assorbimento degli urti è un elemento fondamentale di sicurezza passiva, la capacità di non affaticare il pilota garantendo leggerezza e ventilazione sono considerabili alla stregua di una soluzione di sicurezza attiva, mantenendo elevate soglia d’attenzione e concentrazione.

Ma il paraschiena, a questo punto, è solo uno strumento di protezione che ormai si integra in uno scenario ormai molto più complesso. Dove un livello d’integrazione totale, dalla testa ai piedi, può garantire vantaggi che… andremo a raccontarvi nella prossima puntata.

Da Automoto.it

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