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Come abbiamo detto in apertura, la scelta di Dainese come partner per questo servizio (o meglio, serie di servizi) non è affatto casuale. Al di là della profondità storica che solo il gruppo vicentino può offrire, condizione indispensabile per ripercorrere la storia della protezione, Dainese e AGV hanno - perlomeno al momento - un’altra esclusività. Almeno per quanto riguarda l’impiego estremo, ovvero quello in circuito, le aziende del gruppo sono le uniche a disporre della possibilità di proteggere l’atleta, il pilota, dalla testa ai piedi.
Questa potrebbe sembrare una considerazione secondaria o addirittura oziosa, almeno finché non si prendono in considerazione tutte le interazioni in atto fra i vari capi d’abbigliamento che compongono l’equipaggiamento di un pilota. Casco, tuta, guanti, stivali, paraschiena o protezione airbag, hanno aree di sovrapposizione - sia in termini anatomici che di protezione - il cui studio, e sviluppo, offrono opportunità di miglioramento del tutto irraggiungibili in altri casi.
Analogamente a quanto avviene nel campo della tecnologia, avere il controllo dell’intera architettura permette di… tagliare qualche curva, avere più certezze e ottimizzare quindi la funzionalità complessiva. Un discorso che, tradotto nella protezione, significa leggerezza, aerodinamica, sicurezza.
Da dove nasce la definizione "testa-piedi"? Il motivo è quello che dicevamo sopra. Progettare l’abbigliamento di un pilota, quando si ha il controllo completo della protezione, non significa progettare un singolo capo - guanti, stivali o casco che siano - in maniera indipendente. Chi è degli anni 70 ricorda bene come fosse la regola: avere completi da pista in cui ogni capo - tuta, guanti, stivali, casco - aveva marchi differenti.
L’idea di Lino Dainese, che ha dato il via a una serie di sforzi e investimenti non indifferenti, è stata quella di analizzare i legami ergonomici, funzionali e protettivi fra i vari capi, progettando quindi l’abbigliamento come un unicum. Lo stivale viene quindi pensato e sviluppato in funzione di una certa tuta, che è caratterizzata da un certo collo, una certa manica, eccetera.
L’effetto collaterale di questo impegno è stato la nascita di una grande mole di dati di rapporti ergonomico-funzionali fra le diverse componenti, con maggiore evidenza di potenziali miglioramenti per la protezione e per il peso.
E’ stato proprio questo il momento, a fine anni 90, in cui la Dainese si è lanciata nella produzione dei caschi per completare la copertura offerta, e quindi le potenzialità progettuali. Dapprima con il marchio Dainese, poi, a partire dal 2007, con l’acquisizione di AGV, marchio all’epoca un po’ appannato, ma che condivide con la Casa del diavoletto i valori, ma anche gran parte del percorso storico nel motociclismo sportivo, da Giacomo Agostini in avanti.
Il concetto, in realtà, non è del tutto nuovo - a ben pensare, risale ai tempi delle armature medievali e rinascimentali, dove ogni pezzo è parte di un sistema organico, progettata e prodotta tenendo conto dei rapporti ergonomici e funzionali che la collegano alle altre.
Lo stesso identico concetto - a cui si aggiunge l’aerodinamica, ovviamente - che porta il completo indossato dai piloti a cambiare lentamente forma. Le gobbe aerodinamiche diventano più grandi, e di conseguenza i caschi vi vengono raccordati attraverso studi in galleria del vento con le singole componenti ma anche il pilota intero.
E’ qui la fondamentale differenza. Se in galleria del vento si riscontra un’esigenza che richiede una modifica della sagoma di uno spoiler, quando uno progetta anche il casco può, molto semplicemente, tornare a casa e farlo. Se invece si trova a dover chiedere la modifica a un fornitore terzo, i tempi - o anche la stessa fattibilità - sono una totale incognita.
Paradossalmente, l’esempio più illuminante è quello degli stivali. Osservandone l’evoluzione in 10 anni, si nota come la protezione venga ottimizzata: si parte dal primo modello, in uso sostanzialmente fino ai primi anni 90, sul quale si nota il rostro sul tallone e la protezione al malleolo, passando a quello del 1996 di Olivier Jacque, dotato già di protezioni più estese, in fibra di carbonio, e di uno slider ad altezza polpaccio.
E’ nel 1997 che emerge il primo esempio di collegamento testa-piede: lo stivale pensato per entrare dentro la tuta, sperimentato con Marcellino Lucchi e Valentino Rossi. E poi, al volgere del millennio - nel 2001 - arriva l’ulteriore evoluzione: lo stivaletto con struttura interna in kevlar-carbonio studiata per limitare le torsioni del piede rispetto alla tibia, ma anche le introflessioni. Funzione amplificata ulteriormente dal collegamento con la tuta stessa: lo stivale diventa parte integrante di un sistema più ampio, sfruttandone i collegamenti per aumentare ulteriormente le sue caratteristiche di resistenza.
La riprova si è avuta con il già citato Marcellino Lucchi, che in un test al Mugello indossa le due versioni dello stivale interno - quella del 1997 e quella del 2001 - per sentire le differenze. Probabilmente il collaudatore Aprilia non aveva intenzione di spingere la sua funzione di tester così avanti, fatto sta che però Marcellino vola al Correntaio. Sarà una casualità, ma la gamba che calzava la versione precedente riporta qualche contusione, l’altra nulla. Al rientro ai box, Lucchi butta via lo stivale vecchio e pretende immediatamente una coppia di quelli aggiornati.
Ecco quindi il perfetto esempio di beneficio derivante dall’integrazione testa-piedi. La nuova componente è più leggera e più protettiva anche perché, in zona piedi, la leggerezza è automaticamente sicurezza. In caso di high-side, l’accelerazione dei piedi è notevole, e qualunque risparmio di massa in quella zona costituisce una diminuzione dell’energia cinetica da scaricare nell’impatto.
Non finisce tra l’altro qui, perché l’inserimento dello stivale dentro la tuta riduce anche la possibilità che il bordo si impigli su qualche sporgenza della moto, che in caso di caduta entrino sassi, e dulcis in fundo rende anche sul piano estetico, perché la gamba del pilota è più “pulita”. Una soluzione che, naturalmente, si può adottare solamente se, come dicevamo in apertura, l’intero abbigliamento viene studiato dallo stesso produttore, esattamente come succede quando una moto viene progettata dalla A alla Z da un unico costruttore. Si possono comunque realizzare anche ibridi, sfruttando motori altrui, ma è evidente come in fase di progettazione ci si perdano tante possibilità di integrazione e ottimizzazione. Un sistema organico lavora sempre meglio di una controparte in cui ogni elemento fa storia a sé.
Il sistema mantiene la sua efficacia e utilità anche con i guanti. E’ evidente come le ultime proposte Dainese abbiano un polsino più ridotto (anche se rimangono a catalogo quelli a manicotto esteso) perché sfruttano le protezioni della tuta. E naturalmente, anche i guanti hanno subito un’evoluzione analoga, con l’avvento di protezioni sempre più efficaci (prima in Kevlar, poi in fibra di carbonio, poi in metallo) che hanno aumentato la sicurezza sempre ottimizzando tutto con le altre componenti.
Ora la protezione in metallo è considerata la norma - fa sorridere vedere un Full Metal di ultima generazione accanto a quelli che indossava Andreas Meklau a inizio anni 90 - anche se, come sempre, convincere i piloti ad adottarla non è stata impresa banale. Le resistenze alle nuove tecnologie, quando hanno impatti sull’ergonomia, sono lo standard fra i piloti, sempre piuttosto diffidenti verso qualunque soluzione che li possa penalizzare da un punto di vista prestazionale. Ma lo vedremo ancora meglio nella prossima, e ultima, puntata del nostro speciale, in cui andremo a parlare di Airbag.