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Gli ammortizzatori moderni sono caratterizzati da una funzionalità straordinaria e da ampie possibilità di regolazione. La loro struttura è fondamentalmente semplice, come del resto il principio sul quale si basa il loro funzionamento. Dietro questa apparente linearità però si celano contenuti tecnologici di elevato livello e dettagli costruttivi di grande raffinatezza.
Il principale problema dell’ammortizzatore elementare è legato alla variazione del volume interno che viene generata dalla presenza dello stelo, collegato al pistone, nel vano di lavoro. Quando la sospensione si comprime lo stelo penetra in misura maggiore, riducendo il volume utile interno, mentre quando essa si estende avviene il contrario. L’olio idraulico è praticamente incomprimibile (come tutti i liquidi) e quindi per compensare queste variazioni dello spazio a disposizione occorre che all’interno dell’ammortizzatore vi sia del gas, che si può comprimere ed espandere. Al tempo stesso è necessario evitare che esso si mescoli col liquido, formando schiuma o bolle (la sospensione lavora di continuo e il movimento del pistone è spesso assai veloce); ciò sarebbe infatti deleterio per il corretto funzionamento dell’ammortizzatore.
Il pistone divide il vano di lavoro in due camere, che ovviamente sono a volume variabile (a causa del movimento dei pistone stesso). Per ottenere una efficace frenatura idraulica alle diverse velocità con le quali si muove la sospensione, si impiegano dei passaggi per l’olio a sezione variabile; nei moderni ammortizzatori motociclistici questo si ottiene utilizzando delle valvole a lamelle, che si aprono in misura maggiore o minore in funzione della velocità. Poiché in estensione si deve avere una frenatura più vigorosa di quella che si impiega in compressione, si utilizzano passaggi (e valvole) differenti nei due casi; l’olio incontra così resistenze diverse, a seconda che, a causa del movimento del pistone, venga costretto a passare in un senso o nell’altro.
Questi dispositivi sono arrivati a un livello di evoluzione straordinario e forniscono prestazioni impensabili fino a pochi anni fa
La soluzione a doppio tubo, che è stata la più impiegata fino all’incirca alla metà degli anni Settanta e che è tuttora utilizzata, per gli ammortizzatori destinati a moto di prestazioni non elevate, prevede la realizzazione, attorno al corpo cilindrico interno, di un vano coassiale, ad esso collegato per mezzo di un passaggio praticato in corrispondenza della estremità inferiore. In pratica è come se si venissero ad avere due tubi infilati uno dentro l’altro, con una intercapedine tra di essi. Il gas (aria o azoto) è contenuto nella parte superiore del vano esterno, al di sopra dell’olio, e risulta quindi ben separato dal vano di lavoro. In questo modo si riduce notevolmente il rischio che si possano formare bolle o schiuma. Quando il pistone scende, durante la corsa di compressione, l’olio in parte passa attraverso di esso, entrando nella camera superiore del vano di lavoro, e in parte viene spinto nella intercapedine esterna attraverso un foro regolato da una valvola.
I punti deboli degli ammortizzatori di questo tipo, che peraltro non sono molto adatti a grandi escursioni, emergono nell’impiego gravoso. Innanzitutto il fluido all’interno del vano di lavoro è separato dall’aria esterna dalla intercapedine e da una doppia parete metallica e quindi non gode di un buon raffreddamento. Inoltre, in caso di uso davvero intenso, non è facile evitare fenomeni di mescolamento tra gas e olio e quindi la formazione di schiuma.
Gli ammortizzatori monotubo inizialmente erano realizzati solo in base allo schema che prevede un unico corpo cilindrico nel quale è alloggiato anche un pistone flottante che provvede a separare l’olio dall’azoto in pressione. I limiti in questo caso sono costituiti da una notevole lunghezza e da una ridotta possibilità di ottenere grandi escursioni. Pure per quanto riguarda le possibilità di effettuare regolazioni esterne, si può fare di meglio…
Lo schema che si è imposto, da diversi anni a questa parte, per gli ammortizzatori destinati alle moto di elevate prestazioni o comunque di notevole livello, prevede l’impiego di un serbatoio separato per il gas in pressione (che non è a contatto con l’olio grazie alla presenza di un pistone flottante o di una robusta membrana in elastomero). Tale serbatoio può essere disposto a lato di una estremità del corpo dell’ammortizzatore o addirittura essere staccato da quest’ultimo; in questo secondo caso il collegamento è affidato a una tubazione flessibile. La pressione dell’azoto in genere è dell’ordine di una decina di bar, ma può arrivare anche a 14-15.
Le valvole a lamelle sono costituite da più rondelle elastiche di acciaio sovrapposte come opportuno. In ogni ammortizzatore ci sono quindi due “pacchi” di lamelle, uno dei quali controlla la frenatura idraulica in estensione e l’altro quella in compressione. Le modalità di funzionamento di questi semplici dispositivi sono fondamentalmente legato al numero, allo spessore e al diametro delle lamelle. È agendo su questi tre parametri che si varia la frenatura. Si tratta di regolazioni importanti, che richiedono lo smontaggio dell’ammortizzatore. Per le regolazioni “fini” ci sono i registri, sui quali si può agevolmente intervenire dall’esterno.
In aggiunta ai fori regolati dalle lamelle, ce ne sono altri che vengono controllati appunto dai registri, ovvero da viti a punta conica, ruotando le quali si varia la sezione di passaggio a disposizione dell’olio. Quando tale sezione viene aumentata diminuisce la quantità di olio che passa attraverso la valvola a lamelle. In genere il registro che regola la frenatura in compressione è posto tra il serbatoio e il vano di lavoro, ossia il corpo dell’ammortizzatore. Di norma quello che agisce sulla frenatura in estensione si trova invece nello stelo.