Lima, 15 gennaio 2012
Cyril Despres ha vinto la sua quarta Dakar. 2005, bruttissima edizione, 2007, 2010, ed ora 2012. Marc Coma ha perso la sua, combattuta contro più avversari, di natura diversa, e gli restano, per il momento quelle vinte nel 2006, 2009, e quella dello scorso anno. Ancora un bel duello. forte, tra i due migliori Piloti del Mondo. Rally perfettamente gestito dal francese, in salita per lo spagnolo sin dalla terza tappa, quando Coma ha sbagliato strada ed ha percorso dodici chilometri più del necessario. Poi c'è stata la storia dell'ottava tappa, dei minuti persi da Despres nel fango e restituiti dagli organizzatori, due tappe bellissime, la 11ma e la dodicesima, con un botta e risposta di grandissima classe, e la brutta tredicesima, viziata da un guaio di troppo, questa volta meccanico, che è costata a Coma la gara ed altri tre quarti d'ora per la nuova sostituzione del motore. Il problema del tempo restituito a Despres non è andato giù a nessuno, e più si raffredda l'emotività più la risoluzione dell'organizzazione appare debole. Questo non vuol dire che Despres non abbia meritato la vittoria. L'organizzazione, sì, non ha meritato Despres, e nemmeno Coma la sconfitta, se quella è la ragione. Ma quando la Dakar è chiusa l'archivio della sua storia fagocita voracemente le storie che hanno acceso gli animi durante i giorni della gara. La corsa va agli atti, giusta o no, e resta così. Fa parte della sua natura, a volte costruita su decisioni sbagliate, anche deliberatamente. Chi ne ha tratto vantaggio gode del risultato e finirà per non ricordarsi delle ragioni, e chi le ha subìte finirà per metterle in un file da lasciare alla polvere.
Robby Gordon in corsa sub judice
Robby Gordon, per esempio, squalificato, è rimasto in corsa sub judice. Il suo appello, e le sue eventuali ragioni, potranno richiedere anni di burocrazia. Tutti, l'americano compreso, alla fine si ricorderanno delle sue tappe vinte, dei suoi salti e dei suoi cappottoni. E per le stesse ragioni Robby tornerà alla Dakar prima di averle risolte. Anche per questo Cyril ha meritato pienamente la vittoria, e per l'inutilità di quella infinità di sé e di ma che è impossibile mettere in colonna per cercare un risultato matematico. Despres si è preparato meticolosamente per questa Dakar, anche cambiando metodo di preparazione; è andato meno in moto e ha fatto gare diverse, visto terre e terreni diversi per tutta la stagione. Poi è arrivato alla Dakar in forma olimpica, fisicamente e, soprattutto, di testa. Ha sbagliato pochissimo, probabilmente meno di tutti gli altri, ad ha amministrato ogni sua più piccola risorsa senza rinunciare ad una sola di esse.
Si può discutere sul fatto increscioso che è calato sulla Dakar come un bivio improvviso sul road book, e in questo caso bisogna chiamare in causa la saggezza degli organizzatori, ma non si può discutere il valore che un Campione come il francese ha dato alla sua performance globale. Le belle sorprese non sono mancate. Sono quelle che costituiscono, tutte insieme, la storia degli outsider. Bello vedere al traguardo "Checco" Tonetti, classe '55, sesto nei quad, o suo figlio Nicola, 22 anni, in moto. Bello ritrovare all'arrivo Camelia Liparoti o Claudio Pederzoli "inossidati" da una Dakar durissima, e bello contare fino a sette, tanti sono i magnifici magnifici italiani al traguardo, e ritrovare un mito senza età come Franco Picco o ossi davvero duri come Filippo Ciotti o Gianernesto Astori.
Alessandro Botturi, rookie of the year
Ma la più bella sorpresa, e soddisfazione, per noi, è incontestabilmente la "scoperta" di Alessandro Botturi, ottavo assoluto e rookie of the year. Botturi è arrivato al Rally partendo da lontano, da un desiderio passionale coltivato per anni, ma poi si è fiondato dentro la "materia" in pochi mesi, ed ha letteralmente bruciato le tappe. Ha dalla sua un fisico indistruttibile, ma alla fine ha lamentato una stanchezza crescente, segno che non è il fisico l'"arma" del Pilota di Lumezzane ex campione di Rugby. Buon segno, un fisico si può sempre mettere in ordine ed allineare anche alle esigenze di una corsa massacrante come la Dakar, la testa no: ce l'hai o non ce l'hai. Botturi la testa ce l'ha. Così come ha la forza di tenere duro, di non cosiderarsi mai arrivato, altro difetto di mille rampanti alla Dakar, arrivati, esplosi in un giorno e spariti, frantumati dall'insostenibile peso emotivo dell'evento. Essere nei primi dieci al debutto è un traguardo da sogno, la migliore promessa che un Pilota possa fare all'inizio della sua storia "dakariana".
Bordone-Ferrari, un team tutto italiano
La bella sorpresa Botturi è figlia dell'altra bella realtà scoperta alla Dakar di quest'anno: il suo Team, il Bordone-Ferrari, tutto italiano. La Squadra milanese è nata e cresciuta nello stesso, brevissimo tempo, ed ha centrato un obiettivo che, all'inizio, era qualcosa di più che ambizioso. Alla resa dei conti il Team ha "piazzato" tre piloti nei primi dieci, quattro nei venti, e portato al traguardo il 100% dei suoi Piloti. Nell'ordine Jordi Viladoms, Gerard Farres, Alessandro Botturi e Paolo Ceci. Insieme al rispetto sacro della promessa, proprio nei giorni della Dakar sono uscite clamorosamente allo scoperto le altre ambizioni, non meno grandi, nate dalla stessa costola dell'appassionato progetto: la costruzione di una moto da Rally, una moto intera, con la quale riuscire a competere ad armi pari con i "mostri" che dettano legge da dodici anni, e quella di una moto da enduro da mettere nella mani di Thomas Oldrati, Edoardo D'Ambrosio e Jonathan Manzi. Ma non basta, il Progetto contempla anche la realizzazione, questa volta su scala industriale, di una moto italiana, una "originale" che rappresenti l'eredità di passione di Nicolò Bordone, industriale milanese che costruì una gran bella moto prima della seconda guerra mondiale, rianimata nel sogno della nipote Nicoletta Altieri Bordone e di Renato Ferrari, ormai ex-architetto con un grande, non più contenibile amore per le moto. La moto Bordone-Ferrari sarà una moto con soluzioni costruttive e di design allo stato dell'arte, con interpretazioni tecniche ultra moderne ed una estetica evocativamente "vintage", impreziosita da particolari degni di una religiosa vocazione artigianale nell'uso dei materiali.
D'un tratto è finita...
Non è vero, non pare possibile. Il ritmo sostenuto per 14 giorni è "contagioso", "autoreggente". La Dakar è così, si parte stanchi, perchè le ultime settimane, gli ultimi giorni, fino alle ultimissime ore, sono senza tregua. Le cose da fare, invece di diminuire, sembrano aumentare, pare quasi che non ci sarà più il tempo di completarle tutte. Ma poi arriva il giorno, e si parte. La nave, l'aereo, le verifiche, il podio, la partenza. Partiti. Già stanchi morti. Non sembra possibile poter reggere al ritmo delle cose che succedono ogni giorno durante la gara. La sveglia antelucana, chiudere il sacco a pelo e gli occhi, spesso, pochi quarti d'ora prima. Dormire vigilanti, con il generatore a pochi passi dalle orecchie. Per molti, la Dakar vuol dire dormire un'ora per notte, anche meno, e tutti i cinque, dieci minuti della giornata che passano a tiro. Dipende dalle mansioni, dai ruoli. I Piloti ufficiali hanno le loro ore di sonno prescritte, sono abituati ad infilarsi nel sacco quando è il momento, ed a risvegliarsi quando è stato stabilito. Per tutti gli altri quelle ore di sonno sacro tendono ad assottigilarsi inesorabilmente. E la fatica ad accumularsi. Quelli destinati al maggior sacrificio di sonno sono i meccanici, ancor più se lavorano ai mezzi da gara e poi, prima dell'alba del giorno dopo, ripartono guidando il camion, il furgone, il pickup. Per loro la fortuna è arrivare al bivacco successivo ad un'ora decente, piantare l'accampamento e fiondarsi all'ombra di un differenziale, chiudere gli occhi e aspettare i propri assistiti.
La Dakar è interessante, curiosa, affascinante, e capita di rinunciare al proprio sonno per mille motivi. Perchè è una bella notte piena di stelle, perchè c'è da fare quattro chiacchiere, per dare una mano al meccanico amico sfortunatamente con più lavoro del normale (ma qual'è il carico di lavoro "normale", alla Dakar?), per un bicchierino quando tutto è finito ed il telo è andato sulla moto, per aspettare un concorrente che tarda, per sapere da lui come sta andando all'altro Pilota che è ancora più indietro, per andare a scoprire le Storie della Dakar che fioriscono di notte, quando solo apparentemente, per quel giorno, tutto è finito. Man mano che i giorni passano, ci si fa l'abitudine, ed è sorprendente scoprire come energie insospettabili vengono richiamate all'ordine. La mancanza di sonno diventa un'abitudine alla quale si sopperisce approfittamdo delle occasioni, anche quelle meno, normalmente, indicate. Una volta mi sono addormentato fuori dal portellone dell'elicottero, legato all'imbracatura mentre ci si accivinava in volo al concorrente da fotografare. Pochi attimi, un minuto, forse, ma è così. Un minuto, e via avanti per altre ore. Solo alla fine della Dakar, quando tutto è davvero finito, il sonno prende la sua rivincita, e può capitare di dormire 24 ore di fila, alzarsi per fare colazione e tornare in branda, per altre dodici ore. Quando tutto finisce, dopo il podio, lì ci si accorge che ci mancherà qualcosa, che le giornate sono lunghe e, in rapporto con quelle, vuote. Anche per questo si resta attaccati alla Dakar per una vita.
Piero Batini