Nico Cereghini: "Giochi di squadra e altri guai"

Nico Cereghini: "Giochi di squadra e altri guai"
Peterhansel fermato dal supremo interesse del team alla Dakar. Non è la prima volta né sarà l’ultima, per il motorismo. Ma è proprio sicuro che non si possa fare a meno dei giochi di squadra? Qualcuno lo fa | N. Cereghini
21 gennaio 2014

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Ciao a tutti! Ho una grande rispetto per Stephane Petheransel, motociclista talentuoso, che ho visto trionfare alla Dakar per la prima volta nel ’91. Il francese è il re delle dune, ha messo in fila sei Dakar con Yamaha e altre cinque in auto, Mitsubishi e Mini. Eppure tanta classe non è bastata: ordini di scuderia, il gioco si faceva duro, la rimonta sul compagno di squadra Roma comportava molti rischi per i due equipaggi al vertice, il direttore sportivo Quandt l’ha fermato. Sono i giochi di squadra, si può essere d’accordo oppure no, ma comprenderli è facile: quando gli interessi in campo sono così alti, il risultato della squadra viene prima di tutto.

Era già capitata la stessa cosa nell’89: due Peugeot 405 Turbo 16 in testa alla Parigi-Dakar a lottare tra loro, e il direttore sportivo Jean Todt che lancia una moneta da dieci franchi e decreta “Ickx rallenta e Vatanen vince”. Ero l’inviato di Mediaset sul rally e Todt non mi piaceva, pareva il padrone della corsa, faceva il bello e il cattivo tempo e già l’anno prima, a Bamako, era successo un fatto molto strano. La Peugeot di Vatanen era arrivata in ritardo al bivacco di Bamako, in vetta alla corsa ma con qualche noia meccanica; tutta la notte, alla luce dei generatori, decine di meccanici ci avevano trafficato sopra e poi, al mattino, saltò fuori che la macchina era stata rubata. Rubata, voi ci avreste creduto? La macchina venne ritrovata misteriosamente in tarda mattinata, perfettamente efficiente, e la direzione gara concesse a Vatanen di prendere il via per la speciale diverse ore dopo tutti gli altri. Francese la Peugeot, francese il direttore sportivo, francese l’organizzatore. Ma molti concorrenti protestarono, di farsi prendere per i fondelli non gli garbava, e alla fine Ari Vatanen finì fuori gara.

Quando gli interessi in campo sono così alti, il risultato della squadra viene prima di tutto

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Quando Jean Todt lanciò la famosa monetina fece uno sfoggio di potere e anche di una pretesa trasparenza. Come dire “l’interesse di Peugeot viene prima di tutto e non ho bisogno di nasconderlo”. Eppure la lezione diede fastidio a me e a molti altri. Forse, pensammo, si possono fare le stesse cose con altro stile e meno clamore, o forse si possono evitare proprio.

Però la discussione resta aperta. E’ innegabile che i giochi di squadra, nel motorismo, si sono sempre fatti e ancora si faranno. Ma sono proprio inevitabili? In fondo, se la HRC avesse pensato a un gioco di squadra nel 2013, il titolo della MotoGP sarebbe andato probabilmente a Dani Pedrosa invece che al debuttante Marc Marquez. Dani era il numero 1, esperto e collaudato, Marc il pivello che poteva fare con calma il classico apprendistato della classe maggiore, Lorenzo il rivale pronto a rovinare la festa alla Honda. Invece Suppo –mi risulta- non ha disegnato ruoli e strategie. Gli è andata bene, certo, ma alla fine posso dire che preferisco di gran lunga Livio a Quandt e Jean Todt.

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