Nico Cereghini: “La Dakar come il TT: rischio eccessivo?”

Nico Cereghini: “La Dakar come il TT: rischio eccessivo?”
La discussione è sempre aperta, ma partendo da una realtà indubitabile: chi ci corre con la moto è mosso solo dalla passione e sa che potrà pagare un prezzo alto. Invece certi altri… | N. Cereghini
10 gennaio 2012


Ciao a tutti! Guardo la Dakar, mi appassiono alla gara di Coma e Despres, tifo Peterhansel tra le auto perché quando Stephane era sulla moto dava spettacolo. E del resto mi viene in mente che quando seguivo il Rally in Africa ero sempre entusiasta dei motociclisti; ogni giorno c’erano bellissime pagine da raccontare: smanettate, faticacce, smarrimenti, piccoli e grandi eroismi. Sono passati circa vent’anni, ma l’immagine dei protagonisti di allora, da Orioli a Picco a De Petri e tutti gli altri, sono ancora fotografate nella mia mente, con l’impronta bianca della mascherina sulle facce marroni per la polvere. Eravamo i primi ad intervistarli, noi di Italia 1, e la complicità tra loro e noi è sempre stata grande. Ero invece deluso dagli automobilisti, e perplesso sulla formula della corsa. C’era pericolo, sulle piste, nei villaggi, tra le dune e persino sugli aerei che trasportavano stampa e assistenze. E sì, c’era anche chi con questo pericolo ci giocava troppo. Ma non era mai su una moto.

Il motociclista paga un prezzo molto alto, se le cose vanno male, e ne è consapevole. E se qualche volta esagera

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lo fa soltanto per passione, per l’intimo piacere della guida veloce; e anche per la sana competizione, naturalmente. Invece alla Parigi-Dakar ho conosciuto gente -e parlo di francesi, che erano in grande maggioranza- che sulle quattro ruote (enormi) delle auto e dei camion si sentiva fortissimo, sicuro, indistruttibile. Gente che era in gara con lo spirito del colonialista, del prevaricatore. Che trattava i locali con prepotenza, che attraversava i villaggi a grande velocità con il preciso intento di terrorizzare i neri; ho visto addirittura chi lanciava gli adesivi ai bambini per guardarli azzuffarsi in mezzo alla pista, sfiorati dai concorrenti che seguivano. Qualcuno di questi concorrenti si è preso anche qualche fucilata; ma lasciamo perdere, che è meglio. Dico tutto questo per sottolineare che una corsa spettacolare come la Dakar attirava anche molti frustrati. Non so se ancora ne attira, spero di no, ma nel caso sono sicuro che non guidano una moto.

E’ un po’ lo stesso discorso del Tourist Trophy. Alla Dakar o al TT il rischio è alto, molto alto, più alto di quello che si corre in pista, nel CIV o in MotoGP. E penso che si possa anche discutere se sia accettabile, se sia etico quando potenzialmente mette a repentaglio anche la sicurezza degli altri, ci si può domandare persino –nel caso del TT- se la sopravvivenza della gara non sia il frutto di una cultura eroica che forse appartiene al passato. Ma non si può mai dubitare di una cosa: chi si getta in queste avventure con la moto non lo fa per calcolo o per scatenare istinti repressi. E’ profondamente innamorato del suo mezzo, è un appassionato autentico, alla fine è mosso dall’amore per la vita. Discutiamone, se volete, ma partendo da qui.
 

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