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Ciao a tutti! E’ appena partita la Dakar, la quarantunesima edizione, tutta in Perù, Lima-Lima, dieci tappe soltanto sui tremila km circa delle speciali prevalentemente sulla sabbia. Sarà vero, come si vocifera, che si sta pensando alla Cina per ospitare la corsa del 2020? Non lo si può escludere, il Sud America sta diventando un po’ stretto per un Rally che ogni anno viene ridotto, ma intanto è appassionante seguirlo. Come sempre, perché da quarant’anni è proprio la Dakar che risveglia la nostra passione all’inizio di ogni anno.
Naturalmente non c’è più quello spirito d’avventura, quell’ansia del viaggio in Paesi inesplorati che i concorrenti vivevano nel gennaio del ‘79. In questi giorni la prima Parigi-Dakar era a metà percorso, nel Mali: in testa Neveu con la Yamaha XT, i torinesi Giraudo-Cavalleri vincevano una tappa con la loro Fiat Campagnola, da Bamako a Nioro. Ma i tempi sono cambiati tanto, l’Africa è una polveriera e il Sahel è in tumulto, tanto che la contemporanea Eco Race con Botturi costeggia di fatto l’Atlantico, senza addentrarsi nel continente nero. La Parigi-Dakar della TSO si era già spinta oltre fin dai primi anni Novanta: oltre la sicurezza, con il camionista Cabannes ucciso da una fucilata nel ’91 e troppi spettatori investiti nei villaggi, e anche oltre lo sport. La tecnologia avanzava, la navigazione si ridusse a poca cosa qualche anno dopo. Ricordo ancora le immagini girate dall’elicottero: due auto ufficiali, quella leader in classifica che si ferma per l’ennesima foratura, ha esaurito le ruote di ricambio e l’altro equipaggio, diversi chilometri più avanti, che misteriosamente fa inversione e presta soccorso. Era impossibile capire se qualcuno avesse i satellitari o i gps…
Era grandiosa, ma anche molto discutibile, la gara in Africa: anche senza scomodare l’etica, anche soltanto per l’aspetto sportivo. Distanze esagerate per alzare l’asticella ogni anno, sempre maggiori potenze, i prototipi, le nostre bicilindriche da 200 allora con settanta litri di benzina a bordo. Quanti piloti hanno subito lesioni gravissime o hanno perso la vita? Quel livello di rischio oggi non sarebbe accettabile. Ve lo dice uno che l’ha seguita personalmente fin dalla settima edizione, da quel 1986 che vide il fondatore Thierry Sabine precipitare con l’elicottero e morire insieme ad altre quattro persone. Ho visto correre Auriol e Rahier, Neveu e Peterhansel, Balestreri, Picco e De Petri; le prime BMW, la quattro cilindri FZ Yamaha, le Suzuki e le Gilera; ho raccontato il trionfo di Orioli prima con la Honda e poi con la mitica Cagiva motorizzata Ducati. Molti anni prima che arrivasse il fortissimo e sfortunato Fabrizio Meoni. Qualcuno ricorderà i primi servizi filmati in Grand Prix, e poi negli anni successivi le sempre più ricche trasmissioni quotidiane serali, su Italia 1 e su Telepiù. Il primo anno eravamo in tre, operatore, assistente ed io; alla fine partecipammo con una squadra di dodici persone, con tre giornalisti e pure un’auto sul percorso con Gigi Soldano. Bei tempi, che però non potevano durare.
E anche se non c’è più quella massiccia presenza dei media, anche se quello spirito di avventura non può tornare, io credo che la Dakar resti ancora oggi una corsa grandiosa e affascinante da seguire. Soprattutto grazie a Nicola Dutto: è lui, senza l’uso delle gambe e in sella alla KTM, quello che incarna più di tutti lo spirito originario del Rally con la moto. L’avventura per misurare se stessi.