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Ciao a tutti! La morte di Paulo Goncalves è una di quelle pagine difficili da metabolizzare e da raccontare. Il mio primo pensiero va al pilota portoghese e ai suoi familiari ed amici - che abbraccio idealmente - e subito dopo a tutti quelli che ho conosciuto e perso alla Parigi-Dakar. Sono grato al nostro corrispondente Piero Batini: ho trovato sincero, per nulla retorico, equilibrato il suo pezzo del 12 gennaio; ne condivido ogni riga, e se qualche lettore, come vedo dai commenti, non ha apprezzato, penso sinceramente che non abbia letto con attenzione e magari si sia fermato al titolo e al sommario, come spesso capita.
Sottolineo che tutti i lettori si sono espressi con rispetto e profondità, spesso sulla stessa linea di Batini anche senza saperlo. Qualcuno ha criticato le parole “incoscienza” e “follia”, che nel sommario comparivano non come accuse, ma come contorni dell’antico dilemma sul rischio. Un dilemma cui ciascuno ha il diritto di rispondere secondo la propria coscienza.
Piero scriveva: “Ne vale la pena? Questa è una trappola. Nessuno può e ha il diritto di dirlo per gli altri. E probabilmente, se si parla di sé stessi, ogni cosa che si fa è perché ne vale la pena. Leggerezza? Sì, probabilmente anche, soprattutto perché molte volte attribuiamo una grande importanza a cose che in realtà non ne hanno troppa.
Ma se poi una passione inizialmente leggera è diventata la propria vita? Se poi riempie il cuore e la tua vita, e il confort della tua casa e della tua famiglia? Vedi che non è così semplice, non puoi liquidare una vita basandoti su un episodio. Dunque ne vale la pena. Sì, vale. Ed è una pena, che succedano disgrazie come quella che ci ha portato via Gonçalves oggi”.
Nel nostro sport il rischio c’è, lo abbiamo imparato a nostre spese perdendo amici e magari famigliari, ma facciamo di tutto per mettere questa componente del rischio in secondo piano, riducendola a un’ombra sullo sfondo. Diceva bene il dottor Claudio Costa: “alla morte i piloti non pensano razionalmente, è qualcosa di astratto e lontano da loro, diversamente non potrebbero proprio correre”. Per esorcizzare la morte, lo vedete, i piloti quando sono insieme ridono e scherzano tanto, esattamente come noi cronisti tendiamo spesso ad esagerare con l’epica, esaltando i protagonisti e trasformando gli eventi che amiamo in una festa meravigliosa ed imperdibile.
Ciascuno ha il diritto di scegliere quanti rischi correre e dove. Anche se ci sono state morti che mi hanno fatto profondamente arrabbiare, che ho fatto molta fatica ad accettare perché mi sembravano annunciate. La più dura quella di Chionio, Colombini e Galtrucco nel curvone di Monza, luglio 1973, solo quaranta giorni dopo la tragedia di Saarinen e Pasolini in quella stessa curva che tutti ormai sapevamo mortale, eppure non bastò. Sono stato l’ultimo a vedere vivo, ma già incosciente, all’ospedale di Dakar, il povero Giampaolo Marinoni nel lontano ’86 e il mattino dopo la notizia mi ha letteralmente schiantato. Non ci si abitua mai al lutto. E come diceva bene Piero Batini, “chi resta va al tappeto”. E’ questo il dramma più pesante: quello dei famigliari, di mamme e compagne e figli, che da un momento all’altro restano soli.
Si può misurare scientificamente il grado di rischio percorribile? No, resta una scelta personale, che ciascuno di noi può capire oppure no. Io non riesco a comprendere fino in fondo quelli che partecipano al TT, gara epica ma anacronistica dove il tempo si è fermato. Però naturalmente rispetto la loro passione. Perché sempre di passione si tratta.
Amo la montagna, per uscire dal nostro sport, e anche se non capisco quelli che arrampicano sugli Ottomila fino allo stremo delle loro forze, fino a morirne, leggo con molto interesse i loro libri – l’ultimo quello di Daniele Nardi, rimasto un anno fa sul Nanga Parbat - perché mi pare di capire una cosa: che la morte e la vita sono molto più vicine di quello che proviamo ostinatamente a credere.