De Carli: «E con questo fanno cinque!»

De Carli: «E con questo fanno cinque!»
Lo avevamo intervistato prima dell'inizio del Mondiale, lo abbiamo risentito con il titolo MX1 in tasca. Ora le sue impressioni sul campionato, su Tony, e sulla sua carriera che vanta cinque titoli iridati e più di 50 vittorie | M. Zanzani
23 settembre 2010

 

E' stata la consacrazione della KTM, che con le sue competitive moto ha vinto MX1, MX2, femminile ed Euro 125, è stato un successo per Pit Beirer che ha saputo tenere le redini della squadra più grande del paddock, è stata la conferma di Stefan Everts che ha creduto fin dall'inizio nel progetto SX-F 350, ed è stata la stagione vincente di Cairoli, di Musquin, della Laier, e di Tixier. Manca qualcuno? Si, Claudio De Carli, che anche coi nuovi panni arancioni della Casa di Mattighofen ha centrato il successo nonostante le pesanti incognite che pesavano sulle sue scelte di inizio stagione.

Claudio, è stata l'apoteosi di un'annata praticamente priva di sbavature ma che forse tu stesso non ti immaginavi andasse così.
«Effettivamente i dubbi erano molti perché cambiare in così poco tempo dalle persone con cui hai lavorato per tanti anni, alle moto, all'officina, al sistema di lavoro, e tanti altri piccoli dettagli non è stato facile. Però io e i miei ragazzi abbiamo dato il massimo, ci siamo impegnati molto e alla fine le cose sono andate per il verso giusto. C'è da dire che abbiamo iniziato con un programma curato nei minimi dettagli fin da subito, e che a livello organizzativo tutto è filato liscio grazie anche al buon feeling che abbiamo instaurato direttamente con la KTM. Questo è stato importante perché loro hanno avuto la piena fiducia nel mio modo di gestire le cose, quindi tutto sommato posso dire che sotto quel profilo non mi è cambiato moltissimo, anzi mi sono trovato meglio perché avendo una Casa alle spalle che mi ha dato modo di muovermi più velocemente. Dopo il Nazioni dell'anno scorso abbiamo cominciato a lavorare tantissimo, mettendo oltretutto sotto stress Antonio che così facendo non si sarebbe fermato per tutta la stagione. I ragazzi del reparto corse hanno fatto un lavoro eccezionale, al progetto della 350 ci hanno creduto tutti e non eravamo obbligati ad usarla al primo anno. Abbiamo passato tutto l'inverno a fare delle prove, dei confronti con la 450, arrivando giusto in tempo per lo Starcross di Mantova. Non ci siamo mai fermati, e per me aggiudicarsi il campionato è stata una doppia soddisfazione perché oltre al titolo abbiamo vinto anche una bella sfida».

Qualche notte insonne l'avrai passata a pensare se correre con il 350 o con la quattroemezzo.
«Direi proprio di sì, ma la decisione è andata avanti spontaneamente, man mano che si facevano i test, che si cambiava pista, che si girava su sabbia, fango, o terreno duro. All'inizio c'era un po' di tensione, perché sentivamo di dover fare il risultato, ma tutta questa tensione è svanita subito dopo le prime gare grazie anche alla fiducia reciproca tra noi e Tony».

C'è stato un momento in cui ti sei chiesto chi me l'ha fatto fare?
«No, perché la sfida mi ha entusiasmato in modo particolare. Adesso parlare sembra facile, ma per fare determinate scelte e prendere quella giusta ci è voluta anche un pò di esperienza e ciò mi ha dato ancora di più la carica. ».


Per te è stata anche una rivincita nei confronti della Yamaha che dopo sedici anni non ti ha rinnovato la collaborazione. In pratica ti hanno lasciato a piedi, ma te la sei cavata ugualmente.
«Anche se non è stato facile io mi sono sempre gestito in proprio, ho avuto la forza di puntare su ragazzi giovani e sono riuscito a fare sempre le cose dentro il mio reparto corse, creando negli anni un bel gruppo senza bisogno di tante persone esterne. Ma devo dire che ho sempre faticato per realizzare i progetti nuovi, spesso senza sapere se sarei riuscito a mettere assieme il budget per fare un'offerta a qualche pilota, e tutti i rischi delle valutazioni e delle scelte sono sempre ricaduti sulle mie spalle. Prima Yamaha Italia poi Yamaha Europa mi sono sempre stati molto vicini, ma ho sempre dovuto prima dimostrare per poter poi fare le cose. Così ho sempre fatto tutto da solo, anche nella ricerca degli sponsor, creandomi nel tempo un gruppo di supporter che mi ha sempre seguito. Adesso ho alle spalle una vera factory, quindi tante cose mi rimangono più facili».

Le tue prospettive?

«Continuare a fare bene, è un lavoro che mi piace molto. Ci metterò sempre tutta la mia passione e il mio massimo impegno per poter fare sempre meglio. Adesso siamo all'apice e bisogna mantenere e migliorare quello che si fa».
 

I piloti più dotati di talento con te hanno fatto carriera.

«Direi di sì, ci ho provato con parecchi piloti che fino ad una certa età dimostravano di avere delle qualità e la maggior parte sono cresciuti come ad esempio Lupino, arrivato dalla 85 e passato subito al Mondiale. Non tutti riescono a fare quell'ultimo gradino ed entrare nei primi cinque, perché questo comincia ad essere complicato, ma da Federici che ha sfiorato più di una volta il titolo mondiale e ha vinto il Nazioni, a Chiodi che con noi ha vinto il suo primo titolo iridato per non parlare di Tony che è stato un talento scoperto sicuramente da me, si può dire che effettivamente qualcosa di buono l'ho fatto. Nel caso di Antonio devo ringraziare anche la Federazione che investì sul mio progetto dandomi un supporto importante per farlo crescere, e non mi sono sbagliato perché è un talento esagerato».

Ma il tuo cos'è, occhio fino, intuizione o fortuna?
«E' avere il coraggio di buttarsi e avere anche un minimo di cuore e guardarsi indietro. A volte mi viene da pensare: ma se quel tale pilota avesse avuto un supporto, dei consigli, un team che lo seguiva, che lo indirizzava e che lo allenava, chissà se magari poteva emergere anche lui? Di questa cosa ho sofferto un po' quando correvo io, il motocross a Roma e nel Sud era una cosa che quasi non esisteva, io e la mia famiglia facemmo tanti sacrifici e questo mi ha spinto a dare le possibilità a un ragazzo come Tony che secondo me aveva le qualità per poter venire fuori. Poi ha superato anche le mie aspettative, sicuramente, perché da lì a diventare il più forte pilota italiano della storia non me lo immaginavo neppure io».

E' un caso che da quando è con te non ha mai sbagliato un colpo?
«Io ringrazio Tony tantissimo, e lui ringrazia me. Me lo dimostra in tante occasioni, in tanti modi, come l'anno scorso quando mi seguì nel progetto che gli prospettato quando siamo usciti da Yamaha. Potevamo essere io in una strada e lui in un'altra, avevamo la proposta Suzuki ed altre offerte ma nel giro di una settimana ho preparato il programma KTM, ci siamo guardati un attimino ed alla fine è stata la scelta vincente».

Da ragazzino ad adulto, come è stata la sua crescita?
«Rapida. Quando è venuto da me, nell'ottobre 2003, io e i miei tecnici Nazareno e Lino avevamo concluso il rapporto con Chiodi mentre Federici era a riposo perché la stagione era finita. Ci siamo messi a testa bassa a lavorare su Tony, uscivamo tutti i giorni, con la pioggia, il fango, il freddo, e lui rimaneva stupito vedendo che nel nostro team si girava con qualsiasi tempo e in qualsiasi situazione perché avevamo tutti una grande passione. Così ogni volta che si usciva vedevamo proprio i suoi miglioramenti, allenamento dopo allenamento. A dicembre, prima delle feste, mi sono detto: questo ragazzino ci darà tante soddisfazioni. Infatti a distanza di qualche mese nella prima degli Internazionali d'Italia in quattro giri aveva fatto il vuoto, anche se poi è scivolato. Lui si è reso conto, da lì ha cominciato a pensare "posso vincere", e così è migliorato gara dopo gara fino ad arrivare al Mondiale».

A parte le nozioni tecniche, come e cosa gli hai trasmesso?
«Prima di tutto il metodo di preparazione, come si deve allenare un pilota di motocross. Ma anche cosa deve pensare, come deve partire, come si deve concentrare. E fin dall'inizio gli ho sempre detto: un campione non copia mai un altro pilota. Gliel'ho ripetuto più di una volta e si è rivelato vero, perché Tony ci ha messo del suo in tutto quanto. Dove è arrivato è grazie al suo talento naturale, e quando gli consigliavo il rapporto in discesa o come lavorare in curva sulla staccata, lui non vedeva l'ora di montare sulla moto e provarla, io mettevo la benzina, mi voltavo ed era già sparito. Ma non era come gli altri piloti che provava e non riusciva, lui faceva quello che diceva e andava bene subito, forse anche per il suo entusiasmo esagerato che non gli concede distrazioni».

Un cosa positiva deve essere stata anche la presenza discreta dei suoi genitori.
«Sia la madre che il padre l'hanno seguito sempre facendo grossissimi sacrifici. Partire dalla Sicilia e andare a correre su in alt'Italia per fagli fare tutto il campionato italiano minicross con le modeste possibilità che potevano deve essere stato veramente duro e sono da ammirare. Con loro non c'è stato mai il minimo problema, sono stati sempre molto attenti alle scelte che faceva Antonio ma non si sono mai intromessi e non hanno mai messo pressione né a lui né al team, anche perché in effetti non ce n'è stato motivo. Sono veramente delle persone fantastiche».

Quando è venuto da te era un ragazzino un po' discolo, inizialmente non deve essere stato facile tenerlo in riga.
«E' normale che un ragazzo a diciotto o diciannove anni vuole avere un po' delle sue libertà, però a Tony ho spiegato determinate cose che poi lui ha toccato con mano, se ne è reso conto ed è maturato velocemente. Anche perché ama tantissimo questo sport, il suo segreto fondamentale è proprio questo. Tutti i piloti hanno passione, ma quella che ha lui per la moto è davvero speciale, per questo non fa fatica a stare in moto. Ti faccio un esempio: il volo di ritorno dal Brasile è stato molto lungo e stancante, specie dopo aver avuto alle spalle un GP così intenso: da Campo Grande a San Paolo, quattro ore di stop, poi l'aereo è andato a Francoforte, ancora due ore di stop, non so quante ore di volo, fra tutto, in pratica da lunedì mattina è arrivato in Belgio martedì pomeriggio. Ebbene, mercoledì era già a Lommel che si allenava. Questo non è da tutti, si sentiva quasi in colpa a saltare un allenamento. Ciò spiega il perché sia un grande atleta, ama questo sport e vuole il risultato».

Quando è stata l'ultima volta che l'hai sgridato?
«I piloti non li ho mai sgridati, magari quando sono giovani ti puoi arrabbiare perché devi ripetere le cose, ma con Tony non l'ho mai dovuto fare perché lui fa tutto per il motocross, e infatti può permettersi di fare certe cose perché è un fuoriclasse».

Pensi che sia il più forte del mondo?
«Assolutamente sì. Una rivista italiana ha scritto che rimarrà sempre il dubbio perché Pourcel è andato in America, Rattray pure, e quindi se loro fossero rimasti Tony avrebbe potuto non diventare Campione del Mondo. Ma che ragionamento è? Allora se Malherbe avesse corso ai nostri tempi sarebbe stato più forte di Antonio. Tony ha dimostrato più di una volta di essere un campione, con i suoi 37 gran premi vinti, dei ritmi altissimi e imprese indimenticabili come la manche vinta al Nazioni 2006. Ora c'è chi aspetta il Nazioni di Denver perché Tony deve per forza vincere lo scontro con Dungey, ma per me non puoi mettere a confronto due piloti con solo due o tre gare. Chi ne capisce di gare sa che per mettersi a confronto devi fare tutto un campionato, allora puoi dire chi è stato il più forte, chi ha vinto su tutte le piste e in ogni condizione. Uno scontro a bruciapelo, pronti via, non è uno raffronto reale».

Sarebbe bello vedergli fare il National.
«Quando si fanno le cose ad alto livello si fanno seguendo un programma. Se si corrono cinque o dieci minuti di gara in più o in meno si cambia il tipo di allenamento, il tipo di concentrazione, persino la strategia di gara, come impostare la gara, di come e quando attaccare. Tutte queste cose non vengono perché quel giorno ci siamo inventati una cosa, è un metodo di allenamento, tu ci credi, lo esegui e poi lo riporti in gara. Venendo al National, si corre in due manche da trenta minuti e tutto in un giorno: basta questo per richiedere un metodo di allenamento un pelino differente e quindi una sola prova non basta se uno vuole prenderla come metro di paragone per vedere chi è più forte. Non sono scuse, sia chiaro. Ci si prepara per far quello, poi si va lì e si corre su una pista che non si è mai corso, il fuso orario, la moto magari non a punto come è successo a Desalle. Secondo me Cairoli è di sicuro il pilota più forte, ma se arriva secondo al Nazioni per me non si può dire che Tony non doveva vincere il Mondiale o non potrebbe imporsi nel National, parlare così è da incompetenti».

Sembra ieri il suo primo titolo, invece ne ha già vinti quattro: quanto durerà secondo te?
«Io spero che duri il più a lungo possibile, d'altronde ha tutte le carte in regola per farlo. Secondo me, considerando la sua età, il suo potenziale e il fatto di avere dietro una KTM con cui puoi veramente fare dei progetti ancora più mirati, Tony ne avrà per un bel po'».

Anche perché sembra che la stagione pur essendo lunga e pressante non pare lo abbia stancato, visto che in novembre sarà al Supercross di Genova e poi a Bercy. Il suo miglior pregio?
«Stare sempre con i piedi per terra. Non l'ho visto mai montato nei confronti nostri o di altri, ama essere amato nei paddock e dagli spettatori ma al pubblico dà tanto e se può fare qualcosa per lo spettacolo lui lo fa. E' uguale con noi e nella vita, ecco perché non ha spinto per andare in America, gli piace ma lui è troppo legato ai suoi tifosi».

Un difetto invece?
«Boh, tutti abbiamo dei piccoli difetti, di lui però non saprei cosa dire. Forse perché ha così tanti pregi che magari anche se ha dei difetti non ci fai caso. Prima potevo dire la puntualità perché dovevo sempre insistere con l'orario, adesso nemmeno più quello perché è diventato abbastanza puntuale».

Una curiosità: quest'anno di Tony ho meno foto spettacolari rispetto al passato, ti sembra possibile?
«Dipende sempre dal suo estro. Magari non aveva più voglia di fare cose sbalorditive, quest'anno ci teneva tantissimo a riconfermarsi. Non dimentichiamo che Tony ha vinto un anno sì e un anno no e per dire la verità anch'io avevo vinto il mondiale negli anni dispari con Chicco. Forse c'era anche questa cosa, magari lui è stato un po' più meticoloso sulla velocità, ed è anche maturato. Di sicuro non è che non sia più capace di fare certi numeri».

Si parla tanto della KTM, di Antonio, Claudio De Carli invece chi è?
«Fin da piccolo un grande appassionato di motocross. Il primo Italjet mio padre me lo comprò quando avevo tre anni e mezzo, e da allora io ho dato tutto quanto al motocross e alla tecnica, perché sono appassionato anche di tecnica, il motore, le sospensioni, tutta la moto».

Sei molto modesto. Ci sono tanti appassionati, tanti che si interessano di moto, ma non hanno fatto quello che hai fatto tu.
«Io mi sono dedicato al cento per cento, ci ho creduto tantissimo. Ho avuto sicuramente una buona scuola che è stato mio papà Sergio, a livello tecnico è veramente bravo e mi ha trasmesso questa passione dandomi la possibilità di lavorare su determinate cose. Mi ha seguito anche tecnicamente, e questa passione è aumentata continuamente, quindi ci ho creduto e ho dato tanto tanto tanto a questo sport».

E hai anche colpito nel segno.
«Ho realizzato qualcosa, magari non da pilota, anche se ho fatto delle belle gare, ma da team manager sicuramente».

La tua più bella gara è stato il GP d'Italia che si corse a Ponte a Egola nell'87?
«Si, quando vinsi una manche. In quegli anni ero il pilota italiano più forte nella categoria 500, dove c'erano le squadre ufficiali Honda, Kawasaki, KTM, Yamaha. Io ero l'unico a stare nei dieci come privato in quella categoria, non solo facevo il pilota e mi allenavo, ma essendo molto sensibile riuscivo a fare una buona messa a punto della moto e mi dedicavo anche al collaudo delle sospensioni Öhlins o White Power, sono stato il primo a usare la forcella rovesciata a quei tempi. Addirittura mi sono inventato di usare un telaio Honda con il motore Kawasaki, per me era una moto eccezionale, andavo molto bene e ci ho vinto la manche a Ponte a Egola. Quella è stata la mia stagione più bella, vinsi anche la Mille Dollari e per poco non vincevo a Namur. Qualche soddisfazione me la sono levata anch'io, ma ne ho avute di più come team manager».

Si può paragonare la soddisfazione di vincere quella manche con quella che provi ora a vincere un titolo iridato?
«Ricordo ancora l'amarezza quando a 25 anni lasciai perdere, forse perché la mia fu una carriera molto concentrata visto che mi sa che ho corso dieci anni in tutto. Ma sono stato intelligente da capire che in quel momento era ora di smettere per fare qualcosa di costruttivo in un'altra direzione. Senza una squadra ufficiale o un team in grado di levarti determinati pesi dalle spalle sul piano sportivo ed economico era diventato un pò troppo difficile. Mi ritrovavo ad essere sempre troppo stanco perché dovevo fare un po' di tutto, girare il mondo con un Mercedes 613 dove ho dormito per mesi e mesi anche vicino a Vicenza dove abitava il mio meccanico. Ma quei tempi erano così, sono stati bellissimi e mi hanno dato tantissima esperienza, e quando ho fatto il team nel 1994 nel primo anno ho vinto i titoli italiani junior con Federici e Caprioli. Con Federici quello stesso anno siamo andati al Mondiale, e con solo quattro gare disputate siamo finiti quindicesimi facendo dei quinti e dei sesti posti. Il secondo anno subito ad inizio stagione, nonostante l'arrivo della benzina verde che cambiò parecchio la messa a punto dei motori ed un assetto della moto fatto completamente da noi, a Castiglione del Lago eravamo primi con Federici e terzi con Camerlengo. Tutto questo è stato il frutto della mia esperienza, e da lì ho capito che tutte quelle notti sveglio e tutti i chilometri che mi sono fatto a qualcosa sono serviti visto che ho messo insieme un team con estrema facilità. Nello stesso tempo ho anche avuto l'intuizione di prendere la gestione della pista di Malagrotta, che è servita al team come punto di riferimento per lo sviluppo delle moto. E così, al quarto anno di attività, vincemmo il Mondiale con Chicco Chiodi».
 

 

 

 

 

 

 

 

 

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