Eric Geboers: mister 875

Eric Geboers: mister 875
Ad un paio di anni dalla sua sfortunata scomparsa, abbiamo ritrovato causalmente una intervista che gli facemmo sei anni fa in occasione della mitica Transborgaro, rimasta inavvertitamente nel registratore. Abbiamo quindi pensato di proporvela come tributo al grande pilota fiammingo 5 volte campione del mondo di motocross
27 maggio 2020

Nel 1982 riuscì a spezzare la tripletta iridata di Harry Everts nella classe 125, per poi proseguire nella sua brillante carriera che lo portò a scalare l’Olimpo del cross a fianco degli altri mitici connazionali André Malherbe, Georges Jobè e Stefan Everts.

Un pilota tosto Eric “The Kid” Geboers, a dispetto della sua minuscola stazza che non gli ha tolto la soddisfazione di dominare le potentissime 500 cc a 2 tempi con le quali si aggiudicò due titoli iridati (dopo i due nella 125 e quello della 250) diventando il primo atleta ad aggiudicarsi la tabella numero uno in tutte e tre le categorie del cross di allora fregiandosi dell’appellativo “mister 875” dato dalla somma delle tre cilindrate.

Nativo di Neerpelt, nella parte fiamminga del Belgio, così come per Malherbe rimasto tetraplegico cadendo alla Dakar, e Jobè deceduto per una malattia del sangue, appeso il casco al chiodo Eric ha avuto una vita piuttosto travagliata per via di affari andati male e di un incidente automobilistico che minò a lungo la sua salute, sino alla sua sfortunata quanto assurda scomparsa di due anni fa per annegamento. Di seguito la conversazione che facemmo. 

Innanzi tutto, Eric come sei cresciuto?
«Io ero il più piccolo di sei fratelli e mi sono dovuto sempre un po' arrangiare in quanto mia madre lavorava tantissimo al bar per cui ho vissuto in maniera indipendente avendo la possibilità di fare tante cose. Andavo molto in bici e imitavo i miei fratelli più grandi sviluppando le basi per avere un ottimo equilibrio, un buon tempismo e una forte motivazione perché volevo sempre fare meglio di loro. Tutto quello che gli vedevo fare, lo volevo fare meglio».

Quando hai iniziato a vincere?
«Nel 1980, a 17 anni. Fino all’anno prima il regolamento FIM imponeva di dover avere 18 anni per correre con moto superiori a 50 cc., ma durante l'inverno tale regola è stata abolita senza però che nessuno ci avvertisse, per cui il nostro piano era di chiedere alla nostra federazione il permesso per correre il GP del Belgio come wild card che era il terzo in calendario. Così quando seppi che all’apertura della 125 in Austria avrei potuto correre lasciai perdere perché ormai era tardi, e quindi mi schierai alle terza prova con una Suzuki raffreddata ad acqua che mi prestarono per questa occasione, arrivai 3° nelle prove del sabato e anche nella classifica assoluta del giorno dopo. I giapponesi di Hamamatsu che erano venuti a vedere la gara furono impressionati dal mio risultato, anche perché sino a prima io avevo guidato solo la mia RM raffreddata a d aria dell’anno prima, e quindi mi lasciarono tenere la moto per tutto l'anno con mio fratello Sylvain che mi faceva da team manager e Harry Nolte come meccanico. La settimana corremmo in Francia sotto una pioggia battente e vinsi il GP, successivamente ne visi altri due e all'ultima gara dopo la prima manche avevo ancora la possibilità di diventare campione del mondo ma andò bene ugualmente perché terminai 3° in campionato, l'anno dopo al 2° finché in quello successivo diventai campione del mondo».

Avevi qualche idolo?
«Quando ero piccolo il mio eroe era mio fratello Sylvain in quanto già crossista di successo. A 16 anni mi piaceva Mark Velkeneers, aveva un anno più di me, era velocissimo e correva nei GP contro Harry Everts. Era una promessa del motocross, allora lo guardavo e volevo essere come lui, e l'anno dopo l'ho battuto».

Dopo il primo titolo dell'82 l’anno dopo ne hai centrato subito un altro.
«Sì, sempre nella 125, a fine anno però la Suzuki decise di abbandonare le competizioni ma fui fortunato perché Honda mi aveva già contattato perché quando al Motocross e al Trofeo delle Nazioni avevo battuto gli americani. E così l’anno successivo mi ritrovai in sella alla HRC 500».

Fu un salto notevole passare dalla 125 alla 500!
«Sì, ma la mia prima gara con una 2T di grossa cilindrata l'avevo corsa a 16 anni con una Maico 400 perché Sylvain aveva a disposizione tutti i pezzi per quella moto e quindi usavo quella. Per cui quando si creò l'occasione per partecipare ai GP io non avevo mai corso con una 125 ma solo con 250 o 400».

Durante un’intervista Jeff Stanton mi disse che la moto più difficile della sua carriera era stata proprio la Honda 500 perché era troppo potente, detto poi da lui che è alto un metro e ottanta: tu che eri così più piccolo e leggero come facevi a guidare una 500 2T?
«Infatti non ci riuscivo sempre, e non era affatto facile. La CR 500 ufficiale per me era comunque la migliore moto dell’epoca, ma la mia aveva meno potenza di quelle di André Malherbe e David Thorpe. Avevamo abbassato la compressione per renderla più scorrevole e con meno vibrazioni in quanto da questo punto d vista io ero molto sensibile, e anche se gli ingegneri Honda non volevano autorizzare le modifiche il mio meccanico finlandese Jukka Penttila che era un tipo intelligentissimo avevo anche messo anche un carburatore più piccolo. La moto aveva meno potenza, ma era più maneggevole e mi consentiva di andare veloce anche perché aveva più coppia e più reazione all’apertura del gas, potevo saltare anche un triplo».

La moto che ti è piaciuta di più nella tua carriera.
«Credo che la moto migliore che io abbia avuto è stata la Honda 500 a cinque marce derivata da quella con cui correvo il Mondiale cross e con cui corsi l’enduro del Touquet. L'ho usata per cinque edizioni e ne ho vinte tre, non il primo anno perché la moto non era pronta ma poi l’abbiamo messa a punto edera velocissima sulla sabbia. Aveva un grande serbatoio e la leva di avviamento si incastrava all'interno del serbatoio. Quella moto montava il meglio della tecnologia».

E la peggiore?
«Non saprei cosa dire, ho sempre avuto moto ufficiali. Ho sempre avuto il meglio del meglio, anche con Suzuki. Oppure si torna indietro alla Maico. Forse posso dire che, come pilota, ero viziato. Avevo sempre il miglior materiale a disposizione».

Negli anni ’80 correre per la HRC era come essere in Ferrari: tu, Dave e André eravate il dream team di tutti i tempi nel motocross.
«Sì, non credo che ci fosse nessuno che potesse competere con la nostra squadra, la Honda è sempre stata così».

Il titolo 500 l’hai centrato dopo un po' di anni…
«Nell'84 al debutto nella classe regina ero in testa alla classifica ma ho fatto una brutta caduta in Inghilterra e mi sono rotto il ginocchio finendo 5°, ed è stato l'unico anno della mia carriera nel quale non ero in posizione da podio alla fine del campionato. L'infortunio era stato serio e continuava a darmi problemi, per cui la Honda nell'87 mi chiese di passare alla 250, accettai ma alla condizione che, in caso di vittoria, il mio contratto sarebbe stato prolungato e sarei tornato alla 500. Visi il titolo 250, risalii di cilindrata e conquistai due titoli 500».

Il pilota più difficile da battere che hai trovato nella tua carriera?
«Thorpe, abbiamo lottato in molte gare e fatto moltissimi giri spalla a spalla. Lui era più forte, più veloce, ma io avevo una gran forma fisica e la mia tecnica era un pochino meglio della sua».

Il pilota con il quale avevi la miglior relazione?
«Malherbe, era sempre molto gentile e anche se è vero che quando sei un pilota non sei amico dei i tuoi avversari, con lui non c'è mai stata rivalità».

Il tuo punto di forza?
«La mia forma fisica, ero davvero impallinato nell’allenamento. Volevo così tanto essere il più forte e il migliore negli ultimi dieci minuti che curavo la preparazione in maniera maniacale. Non stavo però molto in palestra, facevo degli sport che migliorano la resistenza come corsa, bicicletta, nuoto che preferivo ai pesi perché il mio corpo era minuto e un po' rigido, quindi non volevo sovraccaricare troppo i muscoli. Avevo studiato parecchio su come allenarmi e alimentarmi, ora lo fanno tutti ma in quei tempi sono stato uno dei primi a curare ogni minimo dettaglio».

La gara che ricordi con più piacere?
«Potrebbe essere Faenza '82, c'era una bella competizione tra piloti tra i quali anche Michele Rinaldi ed è stata la prima volta in cui ho vinto tutte e due le manche, e questo l'ha resa una gara perfetta. Mi ricordo anche il GP d’Italia del '90 ma con la 500, domenica mattina avevo segnato il miglior crono e anche quella volta vinsi le manche. Dopo la gara io e il mio meccanico Jukka abbiamo smontato la tenda e siamo andati a cena. Non c'era molto da dire perché era stato un weekend perfetto, m ricorso che affermai: ho fatto un errore. E lui rispose: l'ho visto, su quella salita. E aveva ragione. Non ne avevamo parlato durante il giorno perché non era necessario, e l'errore era difficile da riconoscere perché sbagliai marcia da seconda a terza e la moto per un attimo perse il ritmo. Ma il nostro feeling era tale che lui se ne accorse nonostante il tempo sul giro fosse stato uguale al precedente, mentre nessun’altro lo aveva notato».

La gara peggiore invece?
«Quella austriaca di Sittendorf nell'89, l'ultimo GP dell'anno. C’era in ballo il titolo ma guidai malissimo e non ce la feci, ma sono cose che capitano ».
 

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C'è un sogno nella tua carriera che non si è realizzato?
«No, quando ho smesso ero molto giovane, avevo 28 anni, ma avevo già avuto tutti i riconoscimenti che mi interessavano».

Il 5 agosto 1990 hai deciso di abbandonare l’attività agonistica: per quale motivo?
«Ero stanco e ne avevo abbastanza perché ginocchio mi faceva molto male per cui non avevo più il gusto della sfida. Ricordo che quando decisi di smettere Joel Robert mi chiamò per dirmi “Eric devi continuare, non puoi smettere adesso, voglio che tu batta il mio record e arrivi a sei titoli" ma gli risposi che non mi interessava, per me non era una sfida vincere più titoli di lui, che quello non era il mio sogno».

Un segreto che non hai mai confessato?
«Non sono sicuro si sapesse, ma avevamo diverse misure di corona posteriore, coi numeri stampati sopra, ma noi li cambiavamo per non far vedere ai nostri avversari, anche ai miei colleghi dell’HRC, quale montavamo esattamente. Specie Thorpe era proprio un curiosone…».

Scommetto che questa fu un'idea di Jukka…
«Certo! Il padre di Thorpe veniva alla nostra tenda con delle scuse e allungava sempre gli occhi sulla moto. La cosa buffa è che poi Jukka controllava cosa montavano loro, e neanche a farlo apposta era lo stesso numero montato sulla nostra».

Abbiamo parlato del tuo punto di forza. Qual era invece il tuo punto debole?
«La mia vita privata, avevo una relazione con una ragazza che molto spesso mi faceva perdere la concentrazione ».

Intendi che avevi troppe ragazze?
«No, no. Solo una, ma non era la ragazza giusta per me e a causa dei nostri problemi ero triste e distratto. Cercavo di tenere la cosa sotto controllo ma non sempre ci riuscivo».

Sabbia o terreno duro?
«Mi andava bene tutto anche se la sabbia era più facile per me perché era difficile per tutti gli altri. Verso la fine della mia carriera riuscivo a correre ovunque, persino a Namur che è una pista durissima, avevo tutto sotto controllo».

A bocce ferme, non pensi che fosse da pazzi correre in una pista così pericolosa? In alcuni casi passavate così vicini agli alberi che toccavate persino i rami e le foglie con il casco.
«No, assolutamente, è un'impressione sbagliata. Sai quanti piloti nelle gare di oggi passano con il manubrio vicinissimi alla pitlane? In fondo questa struttura non è diversa dagli alberi, così come il ponte con le pubblicità. È vero che hanno delle protezioni, ma anche a Namur c'erano le protezioni su ogni albero. Penso che Namur sia una delle più belle piste da motocross».
 

Un rimpianto?
«La mia caduta a Hawkstone Park, in Gran Bretagna, nella 500 dell’84. C’era un doppio salto molto impegnativo chiamato "the big one", il sabato sono stato il primo a saltarlo ma poi ho sentito che anche Georges Jobé era riuscito a farlo per cui domenica mattina ho controllato la sua traiettoria e ho visto che era diversa dalla mia. La mia idea era di testare la sua traiettoria in modo da avere due possibilità, a seconda del momento, l'ho provata, ma non era affatto meglio della mia, anzi, arrivai corto e nell'atterraggio mi infortunai al ginocchio».

La parte del tuo lavoro che preferivi?
«I test, ero un bravo collaudatore perché mi piaceva farlo e potevo fornire molti dettagli e sentire la differenza nei setting. Passavo molto tempo a provare, molte volte era un allenamento migliore del vero allenamento. Mi ricordo che una volta abbiamo dovuto smettere con i test perché avevamo finito il carburante, consumammo 40 litri di benzina e due lattine d'olio».

E la parte meno attraente?
«Andare in Giappone, adesso è diverso ma a quel tempo non mi piaceva. Al termine della mia carriera ero più maturo e imparai ad apprezzare di più le varie culture. Anche l’Italia non mi prendeva molto, perché sapevamo che i piloti locali usavano sempre dei trucchetti per avere le migliori partenze e la cosa mi faceva arrabbiare tantissimo. In più c’erano sempre problemi perché in pochi parlavano l’inglese, per cui da ragazzo mi dissi che non sarei mai più tornato in Italia, nemmeno per i GP. Invece adesso è diventato il mio Paesi preferito».

Davvero?
«Certo, devi però sapere cosa ti aspetta. Sai che non devi lasciare la macchina aperta perché altrimenti ti rubano tutto, devi stare attento coi soldi perché ti possono fregare col resto, devi fare attenzione coi caschi, le giacche. Ma se sei preparato e controlli tutte queste cose, allora riesci ad apprezzarlo».

Cosa non ti piaceva del Giappone?
«Per prima cosa il volo così lungo, il jet lag è terribile specie all’andata. Poi cibo, solo giapponese e niente ristoranti occidentali, in più solo in pochi parlavano l’inglese e non c'erano informazioni sufficienti. I giapponesi facevano un buon servizio, erano molto gentili, ma le camere d'albergo erano minuscole, non potevi guardare niente in TV, eri lontanissimo da casa. Ed era sempre alla fine dell'anno, quando vorresti stare a casa con gli amici».

Quando hai smesso di correre hai avuto una vita travagliata.
«Effettivamente si, a volte non è stato bello ma se la guardo con gli occhi di adesso i momenti brutti sono comunque delle esperienze di vita».

Anche perché non avevi esperienza negli affari. Avevi iniziato con gli elicotteri, se non sbaglio? E quello andava bene.
«Sì, è sempre andata bene».

E poi cos'è successo?
«Abbiamo avuto problemi con la location, lo stesso problema che c'è con il motocross: il rumore disturbava i vicini. Ci siamo trasferiti tre volte fino a quando abbiamo trovato un posto a Mechelen dove il sindaco ci disse che apprezzava il nostro progetto e che avrebbero fornito tutti i permessi necessari. Ma poi sono passati al governo i Verdi e nel 2000 ho avuto la lettera definitiva che mi ordinava di chiudere perché non avrei avuto più le autorizzazioni necessarie per cui ho dovuto vendere tutto perché se non era possibile tenere aperto lì, non sarebbe stato possibile in nessun altro posto. Avevo dodici elicotteri, ho smesso e venduto tutto».

Hai avuto anche un brutto incidente con l'auto?
«Sì, quello è stato nel 92, mi addormentai mentre guidavo in autostrada. Mi sono rotto il collo e per molti anni ho camminato piegato in avanti, i nervi erano a posto e anche le connessioni del midollo ho dovuto tenere l’articolazione bloccata per molto tempo per farla guarire. Nel 2008 ho deciso di farmi operare per raddrizzarlo, l'hanno rotto di nuovo per sistemarlo ed è stata una operazione difficile e rischiosa. Ho sentito dei dolori terribili per sei mesi, ma poi è andato tutto bene. Nel frattempo organizzavamo anche delle gare di triathlon, ma smisi dopo l'incidente per concentrarmi sugli elicotteri per i quali avevo investito più denaro».

E dopo gli elicotteri cosa hai fatto?
«Ho ricominciato a lavorare con mio fratello Sylvain, siamo due persone completamente diverse, ma ci compensiamo. Lui è più per il lato tecnico e io più per trattare con gli sponsor, per il marketing e l'organizzazione. Abbiano il team Suzuki e curiamo l'organizzazione del GP di Lommel e del Motocross delle Nazioni, lui mi vuole più coinvolto con i piloti ma io non ho sufficiente pazienza perché io so cosa devono fare, ma loro non ascoltano. E allora io ci rinuncio. Per cui questo aspetto è andato a Joel Smets che si occupa dell'allenamento e lo sta facendo bene. Così io cerco di non farmi coinvolgere, e non devo essere costantemente presente perché il team funziona bene».

Cosa manca a Clement Desalle per fare il salto definitivo?
«Clement ha un problema: è talmente convinto che quello che fa sia perfetto e pensa di essere un atleta di alto livello, ma non lo è. Non ha desiderio di migliorare, perché pensa di essere già perfetto e che sta già facendo quello che è necessario fare».

Parliamo del 2015: come pensi che andrà la stagione nel mondiale?
«Credo che Villopoto farà una grande differenza per lo sport in generale, il nostro sport ne beneficerà per l'attenzione che riceverà a livello mondiale. Specialmente negli USA, molta gente inizierà a guardare la gare. Credo sia giusto. Capisco Luongo quando in conferenza stampa ha detto di essere felice, Villopoto al mondiale è come un bonus».

Ma sarà dura vincere anche per lui, anche se è un campione.
«Certo, non sarà facile. Ma non bisogna pensare che Villopoto venga solo per divertimento. È un professionista e farà di tutto per vincere, si sta già preparando».

Il dominio dei piloti belgi non è più come in passato.
«È vero e non è vero, dipende da come la vedi. Ti faccio notare alcune cose: se guardi il podio di Trento, c'erano tre belgi, Desalle, Van Horebeek e Strijbos. In Spagna stessa cosa. E' successo due volte quest'anno».

Intendevo dire che sembra non ci sia nessuno dopo di loro.
«Su questo sono d'accordo. Se guardi chi sta emergendo, devi aspettare il figlio di Stefan Everts, Liam».

Così tanto? Ma quanti anni ha?
«Tra quattro anni lo vedremo ai GP, ha dodici anni. Ha la stessa età di mia figlia, o forse ne ha undici. Comunque sarà lì prima di quanto pensi».

Ma cosa ti fa dire questo?
«L'hai mai visto andare in moto? Ecco perché… se lo vedi andare in moto, capisci cosa intendo. Stefan lo cura tantissimo, e lui guida come suo padre».