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Il talento uno ce l’ha oppure no. E’ inutile cercarlo, perché non ci sono vie di mezzo, o bianco o nero, nessuna sfumatura di grigio. Jean Michel Bayle ne ha sempre avuto da vendere, tanto che in ogni cosa in cui si è applicato si è sempre distinto dalla massa.
Abbiamo conosciuto le sue doti in sella alla moto da cross, dove ha dominato prima nei GP e poi nel gotha del cross statunitense; poi in quella che oggi si chiama MotoGP, dove in un baleno ha fatto parlare di sé: ma chi ha seguito bene le sue orme sa che il manico l’ha sempre, anche con la moto da trial, con la bici e persino con le macchine da rally.
E questo è quanto riguarda gli sport motoristici, ma il fuoriclasse di Manosque (paesino francese nel sud della Francia) è talmente eccentrico e fuori dal comune da cavarsela in ogni cosa in cui si applica, dall’informatica alla musica, a qualsiasi sport. Per lui l’importante è sempre avere un obbiettivo, ma una volta raggiunto, via a cercarne un altro.
Per questo quando è arrivato in casa HRC come direttore sportivo di Gautier Paulin e Evgeny Bobryshev, non ci ha stupito vederlo applicarsi alla sua maniera, fuori dalla norma e con lo stesso taglio professionale.
Mentre con Paulin le cose non hanno funzionato, soprattutto per via del non facile carattere del giovane francese, che alla fine del 2015 li portò alla “separazione” in casa, Bobby ha continuato a godere di tutta l’esperienza che Bayle gli ha trasmesso sino a tutto lo scorso anno. Abbiamo visto JMB lavorare assiduamente, senza però sapere esattamente cosa facesse, e soprattutto quali preziose informazioni desse al pilota russo. Conoscendolo, eravamo convinti che non si proponesse come gli altri tutori presenti nel paddock, e non ci siamo sbagliati. Lui stesso ci ha raccontato come si è inventato anche questo suo ultimo ruolo.
«Sporting manager, è così che c’era scritto nel mio biglietto da visita quando la HRC mi ha proposto di dare una mano ai loro piloti - ha spiegato JMB a Moto.it - per me era una posizione nuova, e all’inizio non è stato facile, perché entravo in una squadra dove tutto era già settato, per cui c’è voluto un po’ per capire come potessi dare il mio contributo e diventare una presenza costante nel team. Mi sono ambientato in modo soddisfacente, ma non è stato semplice, perché nel mio trascorso di pilota ho sempre avuto delle aspettative molto alte da me stesso, e a volte ho cercato di pretendere lo stesso dai miei due piloti».
All’inizio come hai pianificato il tuo lavoro?
«Il mio obbiettivo era aiutarli sotto ogni punto di vista, affinare le loro prestazioni e avere risultati migliori. Sono partito su come poterli renderli più veloci e competitivi, dal punto di vista mentale, atletico e prendendo in considerazione il setting della moto e le migliori traiettorie in pista da seguire valutando anche quelle degli avversari. Quindi il primo step è stato capire di che cosa ognuno di essi avesse bisogno, così da avere un quadro chiaro di come poi dover intervenire».
Com’era il tuo GP tipico?
«Iniziavo il venerdì, studiando la pista dall’inizio alla fine sia sulla carta che sul posto, valutando salti, curve e dove erano previste le zone cronometrate, dopodiché si passava al meeting coi piloti, coi quali discutevamo la strategia per il weekend. Sabato partivo con le prove libere analizzando tutte le sessioni a tempo per comprendere il perché nei vari punti erano veloci o troppo lenti, cercando di capire anche se la moto era stata settata in maniera adeguata. Combinavo più informazioni possibili per avere un primo riscontro sui punti da migliorare, che poi si andavano a correggere durante la giornata».
Detto così sembra piuttosto facile, ma sappiamo che non è così visto che ti vedevamo continuamente impegnato ad incrociare dati con tabelle, grafici, video…
«Quello che mi proponevo di fare era dare loro più informazioni possibili, ma non sempre è facile farlo con le parole, per cui ricorrevo alle immagini e a dati tecnici come i tempi, riportati sulle diverse aree del circuito per riassumerli con grafici di immediata comprensione. Quando corri pensi sempre a tante cose, senti la tensione, ecc., per cui ho cercato di ricorrere a questi mezzi per ottenere delle informazioni accurate ma più semplici possibile».
Come usavi i video?
«Avevo la possibilità di sfruttarli in molti modi, confrontando giro dopo giro i propri o quelli degli altri piloti, verificare i tempi da un punto all’altro, analizzare la traiettorie, e tante altre info che col passare del tempo mi hanno permesso di centrare sempre di più i miei obiettivi».
Non deve essere stato facile mettere assieme tutte questi dati, per questo compito sei stato facilitato dalla tua predisposizione per i nuovi media che hai sempre avuto anche quando correvi?
«Quando ho iniziato il Mondiale cross ho conosciuto molte persone interessanti, tra cui Roger De Coster, che negli anni ’90 era già molto avanti sull’uso della tecnologia. Quando poi passai alle corse su asfalto il livello era ancora superiore, perché tutto era analizzato al centesimo, dai tempi ai dati della moto a quelli relativi alla guida, e quindi il lavoro che ho fatto è un po’ la somma di tutte le esperienze che ho avuto in oltre trent’anni nello sport».
Qualche pilota ti ha seguito fino in fondo, qualcun altro meno….
«E’ normale, e posso capirlo perché sono stato anch’io pilota: succede quando ad un certo punto qualcuno pensa di sapere già tutto. Il mio lavoro comunque l’ho fatto per il team, per cui se qualcuno a un certo punto non voleva più usufruirne, era libero di farlo».
E’ stato un lavoro che proseguiva anche in allenamento, o si esauriva coi giorni della gara?
«Di solito solo durante l’evento, ero però a disposizione nel caso qualcuno avesse bisogno di me anche in settimana».
Cercavi di migliorare anche l’aspetto mentale?
«Certo, ma ogni pilota è diverso, ognuno ha il suo modo di lavorare, ed è contornato da persone differenti che tu devi rispettare, per cui devi saperti adattare a tutte queste situazioni e la strategia non è uguale per tutti».
Trovo che in giro ci sono dei giovani talenti, ma che se non vengono coltivati da una figura come la tua rischiano di non arrivare dove potrebbero.
«Secondo me per guidare una moto da cross ci vogliono tre cose: saperla usare a livello tecnico, e devo dire che buona parte dei piloti del Mondiale lo sanno fare; devi essere in forma ed avere l’allenamento per farlo a lungo, infine devi avere la determinazione e lo stimolo di voler vincere, e cioè devi avere l’attitudine mentale del campione. Queste tre cose sono separate una dall’altra, ed è difficile trovare piloti che abbiano tutti questi tre elementi assieme. Certamente il terzo aspetto, quando corri ad alti livelli, è molto importante, ed è quello che fa la differenza tra arrivare 1° e 10°, perché è la cosa che ti fa venire la voglia di migliorarti e di avere di più. Ed è la stessa cosa anche quando sei campione del mondo, perché se non sei forte sotto questo aspetto ci sarà presto qualcuno che ti starà davanti, non è facile per nessuno ma è un qualcosa che puoi sviluppare, così come la preparazione atletica e la tecnica di guida. Per questo penso che il mio apporto all’ottimizzazione dell’aspetto mentale sia una parte molto importante del lavoro che ho portato avanti, il potenziale è enorme sotto questo punto di vista».
Negli ultimi vent’anni questi tre aspetti hanno cambiato connotazione?
«Un po’ si, grazie all’evoluzione delle moto, che sono più accondiscendenti con i piccoli errori e che quindi permettono di andare forte anche a piloti che non hanno un grandissimo bagaglio tecnico. D’altra parte devono compensare con un maggior sforzo fisico, e sono più soggetti alle cadute perché c’è più velocità, per questo oggi abbiamo molti piloti veloci che però cadono molto e si infortunano più spesso».