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L'attesa lo ha ripagato. Dopo anni di paziente attesa in attesa di un supporto diretto, finalmente il sogno di Paolo Martin si è avverato grazie alla decisione della Honda Motor Europe di schierarsi al via della MX1 in forma ufficiale. Il manager veneto si è così tolto il peso di dover far quadrare i conti e mettere assieme budget e sponsor, potendosi dedicare alla cura dell'immagine e all'aspetto tecnico della Martin Racing Technology che gestirà nei prossime tre stagioni le CRF del reparto corse della Casa di Tokio.
Allora Paolo, sei pronto per puntare di nuovo alle prime posizioni del Mondiale?
«Siamo sempre stati pronti, solo che non avevamo le risorse necessarie per fare un lavoro ai massimi livelli. Però non abbiamo mai mollato, abbiamo sempre lavorato al 100% per essere pronti quando Honda voleva rientrare in maniera consistente, oggi è così e io mi sento pronto».
Quindi la mancanza di risultati al top più che altro è stata dovuta ad una scarsità di risorse?
«Si, ma fortunatamente l'anno scorso la Honda fece un'azione molto importante fissando un piccolo budget che è servito per mantenere compatta la nostra squadra. Non volevano in cambio dei risultati, perché sapevano che non potevano prendere piloti di un certo livello, ma è servito per iniziare un nuovo lavoro con il Giappone creando una bella sinergia per sviluppare moto con filosofie e mentalità europee come non c'era mai stato».
Non dopo i titoli conquistati con Parker e Jean Michel Bayle, non deve essere stato facile mancare dalle prime posizioni.
«Diciamo che abbiamo un po' patito i problemi creati da altri team che correvano con le CR, che hanno creato scompiglio all'interno della Honda perché dopo il loro fallimento saltava un punto di riferimento. Noi come squadra siamo sempre stati umili perché avevamo i soldi contati e abbiamo fatto quello che abbiamo potuto. Perciò non potevamo prendere piloti forti, sceglievamo sempre piloti a fine carriera o probabili promesse tanto che nel nostro piccolo abbiamo fatto crescere piloti come Antonio Cairoli, Paulin Gautier e Brian Jorgensen sfiorando il titolo iridato con Pichon. Quindi qualche soddisfazione ce la siamo tolta lo stesso facendo dei bei risultati pur con piccoli budget. Ora che alla Honda sono cambiati i vertici si sono accorti che per avvicinare le giovani generazioni bisogna seguire sport dinamici come il motocross e il freestyle la situazione è venuta un po' a nostro favore perché con loro abbiamo sempre lavorato seriamente ed ora è un po' come ripartire da capo».
Certo che pensando agli investimenti che si fanno, i chilometri che si macinano, alla stanchezza fisica, arrivare al giorno della gara e vedere i tuoi piloti che non hanno risultati non solo perché non hanno le doti ma magari anche perché non si impegnano come dovrebbero deve essere molto provante per chi dirige la squadra.
«E' stato molto difficile, ma siamo stati bravi perché non abbiamo impostato la struttura solo sui piloti ma puntando molto sulla bravura ed efficenza dei tecnici. Nelle riunioni abbiamo sempre spronato i ragazzi a dare sempre il meglio, perciò noi non ci siamo mai fermati nell'evoluzione e nella nostra crescita, ed i risultati oggi ci hanno dato ragione visto la fiducia che la Honda ha riposta in noi».
Anche per i meccanici dev'essere stato duro.
«Sapendo di non avere budget per i piloti forti, abbiamo cambiato gli obbiettivi investendo sulle nostre capacità riuscendo a tenere i meccanici più bravi che sono cresciuti con noi. Abbiamo così potuto far vedere di avere delle moto importanti e una bella struttura, anche se non spetta a me giudicarne il livello».
In effetti quella della Martin Racing è una delle strutture che si presentano meglio nel paddock. «E' dovuto anche alla serietà dei nostri ragazzi, non li vedi mai in giro a fare casini perché sono professionisti. E' un aspetto molto importante ed è difficile fare una squadra professionale che va via solo per lavorare. C'è chi mette il divertimento prima del lavoro, o chi si lascia andare quando i risultati non arrivano. Invece i miei ragazzi sono rimasti sempre concentrati per fare il meglio, hanno sempre mantenuto ordine, pulizia e dedizione anche nei momenti difficili».
Ma qual è la parte più difficile in una struttura come la tua per tenerne le redini?
«Sicuramente la parte finanziaria, anche se in certi casi anche chi aveva i soldi ha fatto male dimostrando che non è che col denaro che si fa tutto. Però con 16 persone da stipendiare, comprese quelle che lavorano a casa sullo sviluppo, è chiaro che quella economica è la situazione più delicata da gestire».
Nel paddock non ci sono tante squadre simili.
«La mia chiave di lettura è questa: se parli con Michele Rinaldi ti dice che nel motocross si può vincere anche con moto, macchina e carrello e i fatti fino a qualche anno fa gli hanno dato ragione visto che ha ottenuto risultati anche senza bilico e hospitality. Ma penso sia una considerazione fatta da un ex pilota, ma un ex pilota non sempre è preparato per fare del marketing. Ora infatti che non vince probabilmente si renderà conto di quanto sono importanti l'immagine e la comunicazione che ti crei, perché finché sei primo puoi fare quello che vuoi, puoi anche correre con la moto a rovescio, ma quando non vinci più è difficile tenere in mano la situazione e farsi vedere.
Michele ha vinto tanto, lo stimo perché ha dimostrato di saper fare una squadra e mantenere campioni di un certo livello in maniera importante anche sul piano della gestione personale, però non ha fatto crescere il motocross nel paddock. Se la Honda oggi si è appoggiata a noi è perché abbiamo creato una hospitality appetibile per gli sponsor, perché abbiamo curato l'immagine e chi ti supporta vuole la tutela e l'esaltazione del proprio marchio. Il giorno che non puoi vincere non puoi non esistere, io penso che non l'hanno capito in tanti».
Quindi è un problema comune a chi gestisce un team con la visione di quando correva.
«In molti casi l'ex pilota non si è affidato a qualcuno per curare l'immagine e il brand, che è quello che nei prossimi tre anni faremo per la Honda. Il problema è che o rimani quello che sei, ma devi ridurre e non fare spese, oppure sei vuoi crescere devi adattarti e dare quello che vuole il grande sponsor sennòla grande azienda da te non viene».
Nel 2011 festeggerei i 20 anni coi colori Honda, una bella fedeltà.
«Sono rimasto sempre con la Honda perché prima di tutto io sono una persona fedele nella vita e penso che quando fai una scelta devi portarla avanti con coerenza. Non venendo da una famiglia ricca io e mio fratello Maurizio abbiamo dovuto far nascere in parallelo un'officina e abbiamo investito e impostato tutto sul marchio Honda offroad».
Per te sarebbe stato comodo gestire le Aprilia visto che le hai a due passi da casa.
«Indirettamente delle persone mi avevano fatto capire che poteva esserci un certo interesse ma non sono stato interessato al loro progetto del bicilindrico perché non mi piaceva, non ci ho mai creduto e quindi non ho neanche iniziato la trattativa con Noale. Un anno l'ho fatto con la Kawasaki, ma non ho trovato gli interlocutori giusti. Oggi con Honda possiamo contare su di un progetto a medio termine, perciò può solo crescere, se non sbagliamo niente e facciamo bene il nostro lavoro e con un pizzico di fortuna facciamo anche dei risultati ci basta per continuare anche in futuro».
C'è mai stato un momento in cui hai pensato di mandare tutto a quel paese?
«Nei momenti in cui sei demoralizzato sì, quando hai problemi di non risultati e finanziari, quando qualcuno non ti paga. Fortunatamente non abbiamo mai preso piloti che non potevamo permetterci, però è successo che tu scaglioni tutto perfettamente e quando salta un ingranaggio arrivano le difficoltà»
Qual è il pilota al quale sei stato più affezionato?
«Trampas Parker, quello che ha coronato il mio primo Mondiale. Eravamo come fratelli, lui viveva a casa mia. E' un po' come il primo amore che rimane più impresso».
Il più simpatico?
«Io ho un ruolo che purtroppo non mi permette di avere tanta amicizia con i piloti, e nemmeno la voglio perché se ti ci affezioni troppo poi non riesci a comandare e tutto è concesso. Però ci sono stati parecchi bravi ragazzi che sono passati nel nostro team, ognuno col proprio carattere e mi sono reso conto che più uno va forte e più ha un carattere particolare. Il più scontroso è stato Mickael Pichon, anche se era un bravo ragazzo dava proprio di matto. Una volta mi ha affrontato perché la ditta che gli produceva i pantaloni non glieli aveva mandati, era uno sponsor suo e non c'entravo niente ma io sono stato ugualmente il suo capro espiatorio».
Altri piloti che hanno lasciato il segno?
«Jorgensen era simpatico, uno tra i più professionali che sapeva cosa fare sulle moto. Il miglior collaudatore che io abbia mai avuto è stato Pascal Leuret per la sensibilità sulla moto che gli altri non avevano, il più antipatico Garcia Vico, è stato difficile lavorare assieme perché era mega viziato dal fatto di avere alle spalle sponsor importanti».
Il più vagabondo?
«Sempre lui. Viveva alla giornata, non organizzava mai niente».
Quello con più talento?
«Penso di essere stato un artefice di talenti, ad iniziare da Antonio Cairoli che ho aiutato da quando faceva il minicross. Quando è andato a correre con De Carli, Claudio non lo voleva neppure, ma aveva il supporto economico della Federazione e lo prese in squadra. Il primo giorno che usò la Yamaha diede un secondo a Federici, e quindi voleva dire che un po' gli avevamo insegnato ad andare in moto anche se noi in quel periodo eravamo penalizzati da avere un 125 che non andava forte. Anche Gautier Paulin l'abbiamo preso che non era nessuno, e la stagione successiva vinse l'Europeo ».
Andando più sul tecnico, è più difficile preparare una MX1 o una MX2?
«A livello di motore è più difficile fare una 250 perché devi lavorare tantissimo per tirar fuori tanta potenza, mentre per quanta riguarda le sospensioni sono molto più facili perché la moto è più leggera e puoi vincere anche se non sono al 100%. Nel 450 la potenza la migliori nel senso che devi ottimizzare la curva di erogazione lavorando di precisione con la centralina, il rapporto di compressione, ed è un lavoro da certosino, ma è molto più difficile mettere a posto gli assetti perché quando ci dai sotto la ciclistica ti mette alla frusta».
L'elettronica e l'iniezione hanno semplificato o reso le cose più difficili?
«L'elettronica è una conseguenza del mondo che sta cambiando al quale dobbiamo adattarci. Ora c'è bisogno di abbattere le emissioni di gas nocivi, e l'iniezione è un passaggio obbligatorio perché con il carburatore non potrai mai ridurre questo tipo di emissioni in quanto sperpera il 50% della benzina. I meccanici hanno preso una steccata nel passaggio da 2 tempi a 4 tempi e non tutti sono stati in grado di subire questo colpo, ora passare all'iniezione elettronica è un'altra bastonata e ci vuole un po' di tempo prima che tutti si adattino a questo cambiamento. Il risvolto positivo è che con l'avvento del 4T ad iniezione con la moto fai una stagione da privato senza toccare il motore. Non rovini più la marmitta quando cadi, i pistoni non vanno più via come il burro come sul 2T, e quindi non è vero che il 4T è più costoso a patto di utilizzare per la manutenzione una mano d'opera di buona qualità».
Che regolazione consigli di fare all'acquirente di una Honda CRF 250 e 450 2011?
«Nella quarto di litro le sospensioni vanno molto bene e consiglio di sostituire marmitta e centralina in quanto l'impianto di scarico di serie è molto chiuso per supportare le normative FIM e comporta una sensibile dose di calo di potenza, mentre sulla quattroemmezzo oltre a marmitta e mappatura bisogna lavorare anche sulle sospensioni».
Come sono andati i test fatti recentemente in Giappone?
«Sono stati una grande sorpresa perché molto diversi da quelli che facevamo tutti gli anni. Il Giappone è cambiato completamente, non so se perché l'Europa sta cambiando. Gli analisti dicono che il mercato americano non avrà crescita per i prossimi dieci anni, e quindi a Tokio credono molto nell'Europa, soprattutto nell'Est Europa e nei Paesi mediterranei compreso il Nord Africa e per aggredire questi mercati devi dare visibilità. Così a Sugo ho trovato uno schieramento di tecnici pazzesco, il camion della Honda, quello dell'HRC, della Showa, della Dunlop e minimo una trentina di persone di cui una quindicina di ingegneri. Abbiamo provato tutti i giorni dalle sette di mattina fino alle quattro, perché poi faceva buio, e ogni mezz'ora si compilava una scheda diversa. Abbiamo provato di tutto, dall'iniezione, al telaio, al motore, le teste nuove, tante gomme, tanti settaggi tra cui diversi parametri del telaio spostando sia l'angolo che l'offset tramite eccentrici che abbiamo utilizzando per posizionare diversamente anche il motore. Abbiamo provato delle configurazioni molto chiuse e molto aperte, e dopo abbiamo svelto la migliore che useremo per correre».
Rispetto alla moto di quest'anno, cosa si è migliorato, cosa si è ottenuto?
«Prima di tutto siamo riusciti a migliorare tantissimo le performance del motore perché quest'anno la nuova misurazione fonometrica ci aveva messo un po' fuori strada. Un punto su cui dovremo lavorare ancora è il retrotreno, perché la forcella è esagerata mentre per l'ammortizzatore dobbiamo trovare dei giusti setup perché sul 450 fa la differenza».
Come sarà secondo te la moto del 2015?
«Se mi dici 2015 non lo so, ma sicuramente la moto del futuro è una moto totalmente elettrica. Honda è avanti anni luce su questo aspetto, il problema è la nostra generazione che non è pronta per un veicolo privo di rumore».
Ricordo di aver visto addirittura nel '91 correre una Honda HRC con cambio automatico in un supercross in Giappone: ne hai più sentito parlare?
«Penso che il progetto sia stato abbandonato in quanto creava grossi problemi perché quando la ruota si alzava da terra il sensore per la lettura del cambio non funzionava come doveva. Quando davi gas saliva di rapporto ma quando scendevi non scalava di marcia subito e c'era da fare uno sviluppo spaventoso per cui che sappia io questa tecnologia è stata utilizzato sul solo sullo scooter DN 01».
Il tuo momento più bello?
«Ho tanti ricordi piacevoli di questo sport, ma quello più bello è Il Mondiale vinto con Parker perché ha coronato un mio sogno».
Quello più brutto?
«Nel 2005, quando Pichon decise a metà stagione di smettere di correre, dalla mattina alla sera mi disse: basta non corro più, e faticai a credergli».
I tuoi obbiettivi?
«Voglio vincere il Mondiale un'altra volta. Questo lavoro è molto difficile, non è come in velocità dove prendi il pilota e gli dici "ci vediamo alla prossima gara fra quindici giorni", qui devi stargli dietro per prepararlo bene, così come sei tanto impegnato giorno e notte nel portare avanti lo sviluppo delle moto per cui aggiudicarsi il titolo iridato sarebbe il coronamento di tutto questo lavoro, spero proprio di riuscirci entro i prossimi tre anni».