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La mostra "Easy Rider. Il mito della motocicletta come arte", curata da Luca Beatrice, Arnaldo Colasanti e Stefano Fassone dal 18 luglio al 14 febbraio alla Reggia di Venaria a Torino, racconta la passione per le moto non solo esponendo i modelli e le marche che hanno reso gloriosi 150 anni di storia, come la MV Agusta di Giacomo Agostini, la Yamaha di Valentino Rossi e la Ducati di Casey Stoner, ma anche attraverso fotografie, libri, still, locandine di film da "Easy Rider" a "La grande fuga" e opere d’arte contemporanea di artisti come Ligabue, Boetti, Merz, Pascali e altri.
Moto.it sarà media partner confermando la voglia di raccontare la passione per le due ruote. Anche la mostra "Easy Rider. Il mito della motocicletta come arte" è stata ideata con gli stessi presupposti e per questo Moto.it è stato scelto come media partner. Non solo, Moto.it seguirà la mostra a livello redazionale e social, ma sarà parte attiva dell’esposizione con due interventi in catalogo di Moreno Pisto, brand & content manager di Moto.it, tra cui l’intervista a Giacomo Agostini che ha tenuto a battesimo anche Moto.it Voice, il nuovo format grafico e con contenuti long form di Moto.it.
“Siamo felici di seguire da vicino questa mostra che racconta un mondo entrato ormai nell’immaginario collettivo” - afferma Moreno Pisto brand & content manager di AM network - “Mi piace semplicemente ricordare, parlando di passione per le moto, le parole di Giacomo Agostini che ho intervistato...«È l’amore, l’amore che tu hai per il tuo sport che fa la differenza. Correre in moto era la cosa che desideravo più di tutte, quindi non c’era paragone tra i sacrifici che dovevo fare per vincere e la gioia che provavo vincendo.»”.
La mostra si articola in nove sezioni tematiche che vanno dallo stile italiano, alle moto nel cinema, passando per l'epoca della tecnica giapponese e per lo stile londinese. Protagonista anche lo sport, con l'epopea africana della Dakar e ovviamente con i miti della velocità.
Prima sezione - Stile forma e design italiano
L’ingegno è un fatto italiano: così lo stile, la funzionalità, l’eleganza. Ma l’ingegno è anche l’esaltante ricerca della bellezza, la grande tradizione della nostra industria della velocità. La moto è il desiderio di libertà per generazioni e generazioni di italiani. Dopo la Seconda guerra mondiale, il design esplode e impone, nei modelli di moto, i caratteri guida della creatività italiana: snellezza, proporzione, intelligenza meccanica. Un risultato che vive nell’arte, in particolare nell’Arte Povera, a partire dal 1967. Non conta la “povertà” dei materiali, ma la loro capacità di essere azione, racconto, ambiente. Per Alighiero Boetti il colore è l’ordine dell’immagine. Nell’Accelerazione di Mario Merz una motocicletta è lanciata verso l’infinito, mentre il neon rende vero il sogno, così come è sempre, vera, nella F4 Oro dell’Agusta del 1998 o nella grazia della Piuma Gilera del 1951, la visione del movimento. Pino Pascali è “motociclista d’arte”: le sue pozzanghere sull’asfalto restano salti nel vuoto. Giochi ribelli della giovinezza.
Seconda sezione - Il Giappone e la tecnologia
Honda, Suzuki, Yamaha, Kawasaki: è la costellazione favolosa dell’industria motociclistica giapponese a partire dagli anni Settanta. Un equilibrio perfetto di tecnica e qualità dei telai, un’esatta connessione di leggerezza, modularità e forza dei materiali, l’eleganza e l’aggressività persino stravagante, se non infantile, di motociclette perfettamente affidabili. La potenza e il sogno del Sol Levante conquistano velocemente il mercato internazionale. La motocicletta non è soltanto un mezzo di trasporto, mira a essere sport, divertimento, giovinezza, bellezza e arte naturale. La nuova moto giapponese è dunque l’immagine vivace e fantasticamente conceptual delle avanguardie giapponesi del dopoguerra: appare una realtà fluxus, diventa un manga improvvisamente concretizzato nella realtà che sfolgora per gli street crossing di Tokyo.
Terza sezione - Mal d’Africa
Quando Thierry Sabine, durante la corsa Abidjan-Nizza, rischiò di perdersi nel deserto, volle esorcizzare l’incubo immaginando una nuova “scuola di vita”, un rally che si svolgesse lungo il percorso al contrario: era il 1979 e nacque così la Parigi-Dakar. Non esistono film né libri che abbiamo saputo raccontare meglio la terribile attrazione del deserto e del mal d’Africa come la furia di automobili, camion e motociclette. Tempeste di polvere, piste di rocce e sassi, il gran caldo, la solitudine del pilota, le insidie naturali, la fatica e la morte. Ma anche la leggenda. Leggendarie motociclette che corrono dall’alba alla notte lungo migliaia di chilometri: Yamaha, BMW, KTM, e ancora Cagiva, Gilera, Honda. Il viaggio verso il mare del Senegal resta una delle imprese epiche della cultura di fine Novecento. Un’avventura che stringe la tecnologia alla durezza della natura, l’olio dei motori alla sabbia, come nel Miraggio di Mario Schifano. Un sogno di esplorazione che dà la chiave di un’esistenza sempre tutta da costruire, come nell’installazione di Medhat Shafik e nel quadro di Chéri Samba. La Parigi-Dakar ha rappresentato il superamento della paura.
Quarta sezione - La velocità
Nonostante il pensiero vada a Pino Pascali, che corre sfolgorante nell’arte italiana del dopoguerra come la motocicletta, suo grande amore, su cui morirà, trentatreenne, nel 1968, la chiave per svelare ciò che davvero si nasconde nel mito di nomi astrali – quali l’MV Agusta di Giacomo Agostini, la Yamaha di Valentino Rossi, la Ducati di Casey Stoner – corre verso l’opera di Gianni Piacentino. La moto (una Indian degli anni Trenta) è centrale nella biografia dell’artista torinese. «Mi piaceva seguire i lavori», racconta, a proposito del restauro della motocicletta «e vedere i colori, così mi venne in mente di immettere anche i miei interessi e la mia passione nella mia arte – tra gioco e mania, attenzione e attrazione per l’estetica industriale e per il design – che includeva anche l’idea di possedere e guidare una motocicletta. Cominciai a fare modellini segando parti di macchinine.» Negli anni Settanta Piacentino gareggia sul sidecar della Suzuki 750 guidata da Franco Martinel, all’International Sidecar Championship Race. La moto è l’ostinato rigore dei pensieri in fuga.
Quinta sezione - Sì, viaggiare
Se dovessimo cercare le parole che caratterizzano la società democratica uscita dal dopoguerra eviteremmo, perché limitati, termini come diritti, uguaglianza, solidarietà. Il carattere essenziale delle generazioni della seconda parte del Novecento è la libertà di circolazione e di movimento, l’utopia realizzata del viaggiare ovunque. Nulla come il viaggio su due ruote – sia in Vespa sia in BMW GS 100, sia in Harley-Davidson o su Honda Gold Wing – rappresenta il segno della liberazione individuale e sociale per intere generazioni. Il viaggio è la modernità e la circolazione senza costrizioni, il mantra o la ballata più bella di ognuno. Persino l’arte, apparentemente drammatica di Emilio Isgrò, le sue “cartine geografiche” con le cancellature di zone o di didascalie, svela il trionfo della forza del viaggio. Isgrò crede che l’arte bonifichi il linguaggio della gente per renderlo ancora un’avventura, appunto un’occasione di intelligenza e di scoperta. La motocicletta è stata la gloria di un viaggio fatto con se stessi, mentre in faccia sbatte forte la libertà di essere e di vivere.
Sesta sezione - London Calling
Nei primi anni Sessanta, a Londra, al 59 Club, all’Ace Cafe e davanti a vari locali che si rifacevano al mitico café racer – punto di ristoro per i trasportatori già nei tempi di guerra – si potevano scoprire grovigli di motociclette parcheggiate con fierezza dai giovani dell’epoca d’oro dei rocker. Moto bellissime: oggi potremmo dire provviste di uno spirito nostalgico e retrò. Le café racer sono spogliate di orpelli turistici e personalizzate dal gusto come dalla genialità, persino costruttiva e manuale, del pilota. BSA Gold Star, Triumph Bonneville e Trident, la Norton Commando, una Matchless G 80. L’arte stessa le celebra, clamorosamente, con Paul Simonon, bassista dei leggendari Clash, che dedica un’intera mostra di pittura a quello straordinario mondo vintage. Caschi, guanti, una mitica Black Bonneville: l’arte della moto come arte della bellezza, reinventata in un sogno di mai perduta adolescenza.
Settima sezione - Il mito americano
Quando, nel 1974, uscì Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta l’America tornò pienamente beat. Robert M. Pirsig parlava della qualità e della felicità dell’esistenza: il viaggio a cavalcioni di una moto, era l’on the road dell’anima, la voracità, la sete, la ricerca del senso di ogni cosa, la certezza che solo lungo «i fianchi della montagna e non sulla cima si sviluppi la vita». Pirsig guidò solo una BMW ma tutti i motociclisti lo amarono. Le Harley-Davidson Electra Glide del 1972 o la Panhead del 1948 e la 883 del 1965 sono i mostri d’acciaio che tagliano e uniscono per sempre la giovinezza di un padre e di un figlio. Occorrono dunque ironia, passione, sorpresa, coraggio, persino un’inguaribile impertinenza per poter viaggiare dentro se stessi. Il mito americano riecheggia nel Love di Robert Idiana, simbolo dei favolosi anni Sessanta, nelle strade vuote e nei desolati gas station di Glen Rubsamen, nella bellezza irriverente della motociclista di Ida Tursic & Wilfried Mille e nel divertente pop surrealismo di Andy Rementer.
Ottava sezione - Terra, Fango, Libertà
Gli happening dell’americano Aaron Young sono forme di graffitismo supercontemporaneo, pittura materiale, incisione del metallo. Ma è il mezzo che usa a sorprendere. Non un pennello, una punta, né la fiamma ossidrica, bensì una Honda che frena, sgomma e che nel delirio di polvere e di materiale incandescente lascia inciso il proprio misterioso ritratto del mondo. Per l’immaginario dei motociclisti, il cross, il trial e l’enduro sono soprattutto questo: la maniera di ritrovarsi nella sopportazione tra la polvere e il fango, sapendo opporre solo il coraggio del pilota e la bellezza dei panorami. E tali restano le leggende delle più specialistiche Husqvarna, Montesa Cota e Puch, o delle sinuose Ducati Scrambler e Guzzi Mirimin, ideali per apprezzare le strade bianche, non asfaltate. Il “fuori strada” è la sperimentazione di una libertà altra e diversa. Un istinto selvaggio e nomade. Un “fuori”, tuttavia, che non è solo deragliamento e perdita del limite ma desiderio di rinnovare, di espandere, di rendere globale l’esperienza della vita.
Nona sezione - La moto e il cinema
Più dei titoli sono le moto il vero segno di riconoscimento di alcuni capolavori del cinema. La Brough Superior SS 100 è la solitudine sovrana del Lawrence d’Arabia, il segno più segreto del suo carisma. La Triumph Bonneville di Steve McQueen salta il ferro spinato e corre via ne La grande fuga oppure rende incomparabile, ne Il selvaggio, il dio di un altro sconosciuto universo, Marlon Brando. Così la Ossa Enduro porta in giro la simpatia di Terence Hill e Bud Spencer in "...altrimenti ci arrabbiamo!", mentre la leggendaria Harley-Davidson Hydra Glide Chopper del 1949 si fa mito di tutti i miti on the road, la visione americana di "Easy Rider". La motocicletta è attorialità, è arte, è comunicazione. È in sé un primo piano o magari un paesaggio: a volte è la vera coprotagonista di una storia tragica ed epica. Perché la moto, con la sua forza iconica e simbolica, con la sua perfetta bellezza di forma, di segno e di eleganza, è innanzi tutto una scommessa sulla vita.