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Nel 1949 moto e piloti italiani quasi monopolizzarono il primo mondiale: Nello Pagani fu primo con la Mondial nelle 125 e secondo per un punto nelle 500 con la Gilera, mentre nella classe 250 furono Bruno Ruffo e la sua Guzzi a scrivere per primi il loro nome sull'albo d'oro del circuito iridato.
La Federazione Motociclistica internazionale inaugurò in quel 1949 il primo campionato mondiale della storia articolandolo su cinque Gran Premi, di cui solo quello di Monza programmato su una pista permanente; tutti gli altri - il TT di Man, Svizzera, Belgio, Olanda e Ulster - su tracciati stradali aperti alla normale circolazione.
Su questi percorsi che erano ormai entrati nella leggenda delle due ruote si sfidarono piloti quasi tutti europei, più qualche australiano e neozelandese; e le moto che si imposero nelle quattro classi (125, 250, 350 e 500) furono le inglesi e le italiane.
Nelle 500 fu un arrivo al fotofinish tra Leslie Graham con la sua AJS "Porcospino”e Pagani sulla Gilera: la Federazione, con un verdetto discutibile, assegnò all'inglese quel punto in più che gli fu sufficiente per vincere il titolo.
Nella 250 dominarono Bruno Ruffo sulla Moto Guzzi e Dario Ambrosini sulla Benelli, ma alla fine fu Ruffo a vincere il titolo piloti e la Guzzi ad aggiudicarsi quello dei costruttori.
Bruno Ruffo era nato vicino a Verona e sin dalla tenera età familiarizzò con moto e motori nell'officina di famiglia; da ragazzo era già un esperto conoscitore e pilota.
Arrivò la guerra e Bruno venne mandato in Russia con mansioni diverse, fu anche portaordini motociclista; così a guerra finita, quando tornò tutto intero e con tutta la passione, lavorando duramente riuscì ad avere la sua prima moto da gara: una Guzzi 250 Albatros, con la quale fece nel 1946 il suo esordio in gara vincendo a Monza per poi chiudere il primo anno di attività con nove successi.
Fu nel 1948, quando al GP di Monza si mise dietro le due Benelli e tutte le Guzzi ufficiali, che Guzzi lo volle come pilota ufficiale. Nacque lì un amore per l'aquila di Mandello che durò tutta la vita. Per Ruffo la Moto Guzzi era, parole sue,“una Casa valida, con un buon reparto corse e buone macchine”.
Bruno Ruffo era un pilota che guidava con cuore, occhi e cervello. Era freddo, calcolatore e si poteva essere certi che una volta partito sarebbe arrivato al traguardo e pure tra i primi. Ricercava forse troppo la perfezione, era formale, riservato e molto educato. Significativa del suo cavalleresco carattere era una sua frase, la sua definizione di come si riconosce un vero campione: ”Dall'umiltà con cui tratta coloro che ha battuto”.
Dopo aver vinto il mondiale del 1949, a causa del ventilato disimpegno della Guzzi dalle gare per l'anno successivo, chiese e ottenne la possibilità di rimanere in allenamento andando a gareggiare nel 1950 con la Mondial 125 dove, nonostante la squadra fosse già ben fornita di campioni come Leoni, Pagani e Ubbiali riuscì a ritagliarsi il suo spazio e diventò pure campione del mondo, aiutando la Mondial ad occupare i primi tre posti della classifica piloti.
Nel '51, tornato in Guzzi, il veronese capì che qualcosa era cambiato. Si sentiva anche dire ”la gente non sa se a vincere ora è la Guzzi o ancora Ruffo..” e da allora cominciò ad essere coinvolto nei giochi di squadra tanto comuni a quei tempi. Come al TT di Man, dove la vittoria di un pilota inglese avrebbe avuto una superiore risonanza, con risultati commerciali e pubblicitari ben diverse. Ebbene, per quella gara Ruffo non fu considerato prima guida e gli fu chiesto addirittura di non vincere...
Questo gioco di squadra è difficilmente concepibile con il moderno metro di valutazione delle corse, ma allora l'ingerenza delle Case era notevolmente maggiore, i piloti erano considerati dalla dirigenza dei dipendenti stipendiati e pure bene, visto che in Guzzi l'appannaggio di uno come Ruffo era circa dieci volte quello di un operaio.
Per i piloti, oltre ai premi degli sponsor tecnici (catene, candele, gomme) era prevista una ulteriore dimostrazione di gratitudine: nel caso di vittoria del titolo c'era un congruo assegno più una moto di serie (il Falcone) in regalo: nulla di lontanamente paragonabile ai compensi dei piloti di oggi.
Alla luce di questo comportamento padronale si può ben immaginare quanto fosse difficile metabolizzare gli ordini di scuderia, sebbene ben compensati, e come attuarli. Per carattere e personalità, però, Bruno Ruffo si comportò sempre cavallerescamente nei confronti dei colleghi piloti e fu sempre a disposizione del “datore di lavoro”.
In un mondo perfetto ci si aspetterebbe il medesimo rispetto del codice cavalleresco da parte di tutti i piloti, ma non fu sempre così: si racconta per esempio che un giorno Ruffo, obbedendo agli ordini di farsi superare dal compagno, aspettò per rispetto di arrivare in un tratto del percorso dove non c'era pubblico.
Però non gli fu riservato lo stesso trattamento dal medesimo pilota, alla prima gara di rientro dopo un serio incidente: questo collega lo fece passare solo a poche centinaia di metri dal traguardo, davanti a migliaia di occhi. Bruno ci rimase male, con quel compagno di squadra non ebbe quel “feeling” che ebbe, invece, anche se avversario, con Leslie Graham. Del grande campione di quel periodo Bruno apprezzava le doti di umanità e il carattere “mediterraneo”, e ne ammirava la completezza di guida in tutte le cilindrate dalla 125 fino alla 500.
Contemporaneamente alle gare in moto, Bruno Ruffo fece esperienze anche nelle gare automobilistiche: con l'Alfa Romeo partecipò alla Mille Miglia del 1952, nonché alla 1000 km del Nurburgring e alla 24 ore di Spa.
Sfortunatamente arrivò l'incidente al TT dell'isola di Man, durante le prove del '53 quando si ruppe malamente le gambe. Fu in una intervista televisiva che annunciò il suo ritiro dalle competizioni, e da persona di parola quale era mantenne la sua decisione, forte della convinzione che “Bisogna lasciare con in testa l'alloro da campione, perché poi si diventa una persona qualunque”.
E per chiudere, come mi piace dire : “Ciascuno è ciò che lascia dietro di sé”. Ruffo, da “grande persona”, lasciò in eredità tre titoli mondiali e poi emozioni, rispetto e ammirazione. Il tutto condito da un gran sorriso.
L'autore
Augusto Borsari è un ex giramondo per lavoro e un grande appassionato della storia della moto, soprattutto quella dagli anni Quaranta ai Settanta. Una febbre che lo ha preso fin da piccolo: il padre era concessionario Moto Guzzi a Finale Emilia, provincia di Modena.
La pagina facebook di Augusto è un pozzo di storie, ricordi e considerazioni sul mondo delle corse.