Campioni americani: Kenny Roberts 1978, inizia il dominio USA

Con il primo titolo mondiale del “Marziano”, conquistato esattamente quarant’anni fa, si apriva un ciclo straordinario per la classe 500. Lawson, Spencer, Rainey e Schwantz dominarono a lungo. Dov’era la loro forza? E perché gli americani oggi non contano più?
1 agosto 2018

Giusto quarant’anni fa, il 6 agosto 1978 , Kenny Roberts vinceva  a Silverstone il GP di Gran Bretagna, e metteva una seria ipoteca sul suo primo titolo mondiale spodestando Barry Sheene, campione in carica con la Suzuki. Impresa storica, perché lo statunitense aveva esordito in 500 a metà marzo, aveva cominciato a vincere già con la terza prova di Salisburgo, e poi aveva bissato subito a Nogaro e al Mugello.

Con la Yamaha 500 gialla e nera gommata Goodyear avrebbe successivamente dominato tre campionati consecutivi nella top class: 1978, 79, 80. Quarant’anni fa. E lì iniziava la straordinaria epopea dei piloti "a stelle e strisce": Roberts l’apripista, poi Eddie Lawson, Freddie Spencer, Wayne Rainey, Kevin Schwantz. E ancora Randy Mamola, John Kocinski, Ben Spies e tanti altri fino a Nicky Hayden. Ben 154 vittorie in 500, e 15 titoli mondiali. Adesso gli americani sono scomparsi, c’è solo Joe Roberts in Moto 2. Quali erano i segreti del loro successo? E perché adesso non contano più?

 

Quali erano i segreti del loro successo? E perché adesso non contano più?

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Per cominciare, qualcosa di personale. Ci accorgemmo subito che Kenny Roberts aveva una confidenza speciale con la sua super Yamaha. Il modo in cui la impennava, la buttava nelle curve col ginocchio sull’asfalto…. Quei pochi filmati che arrivavano dall’America, le gare sugli ovali in terra lunghi mezzo miglio o un miglio dove Kenny aveva vinto tutto, ci facevano capire che la sua confidenza con le curve ad alta velocità era particolare. 

Lui era pilota ufficiale Yamaha anche lì, nelle gare con la moto di traverso: contro i pluricilindrici inglesi e le bicilindriche Harley-Davidson, i bicilindrici Yamaha degli anni Settanta facevano fatica, e allora, nel '75, aveva pensato di infilare il quattro cilindri TZ 750  a due tempi in un telaio speciale. Minimo cento-centodieci cavalli, solo lui avrebbe potuto guidare un missile del genere…
Forse fin dal suo esordio mondiale del ’78 aveva un vantaggio di gomme, ma è difficile dirlo, perché nessun altro disponeva allora delle Goodyear, e di sicuro il produttore americano (allora dominatore della F1) aveva investito molto su di lui…

Certo, la sua era una bella squadra, organizzata dall’ex-campione del mondo Kel Carruthers, un australiano che nel 1969 vinse il mondiale della 250 con la Benelli a quattro cilindri e anni dopo diventò manager della Yamaha USA, affiancato da Nobby Clark e  Trevor Tilbury. Carruthers aveva esperienza, e Kenny aveva una scarsa cultura ma era acuto e dotato di un grande carisma: sguardo diretto e penetrante, poche parole ma meditate, si capiva che possedeva una gran forza mentale, però esprimeva anche una notevole dolcezza e sorrideva spesso. Gli piaceva la mia figura atipica di pilota/giornalista; negli States ne aveva conosciuti altri e anche molto veloci: se soltanto avessi parlato un po’ di inglese…forse saremmo diventati addirittura amici. Qualche volta ho anche pranzato con lui e i suoi nel motorhome, e mi sono divertito, ma capivo la metà.

Naturalmente io Kenny lo vedevo alla partenza della gara e poi più, ma un paio di volte gli sono stato vicino abbastanza da vantarmene: in un turno bagnato del sabato mattina, nel GP d’Italia al Mugello (lui miglior tempo con le G.Y. ed io secondo tempo con le Michelin di tutti) e poi nella mia ultima gara dell’ottobre 1978 a Imola, una 500 internazionale. In quel caso riuscii miracolosamente a partire bene (con la spinta, maledizione!) e sull’asfalto umido gli tenni testa per un giro intero. Poi ciao!  

Roberts in una gara flat track con la Yamaha 650
Roberts in una gara flat track con la Yamaha 650

Pat Hennen e Steve Baker

Il primo americano a vincere un GP della 500 in realtà era stato Pat Hennen, nel GP di Finlandia del 1976. Sfortunato: centrato al capo da un volatile due anni dopo al TT (che da un pezzo aveva perso la validità mondiale, ma che lui amava), non si è mai ripreso del tutto.
Poi era arrivato Steve Baker, che conquistando il titolo della Formula 750 nella prima edizione del ’77, ha preceduto Kenny come primo statunitense iridato. Ma Roberts ha dominato il mondiale vero, ha inventato un modo di correre, ha creato una scuola. Il Marziano: è lui il riferimento.
Credo che negli anni Settanta i piloti americani si siano costruiti un vantaggio sfruttando subito le moto giapponesi di produzione. Questo il segreto: poiché avevano esperienza tecnica e di guida, migliorarono le prestazioni e le ciclistiche, correvano tutte le domeniche sia sull’asfalto sia su terra perché quella era la tradizione. Dopo Kenny, tutti (da Spencer a Lawson, Schwantz, Rainey) sono usciti dalle superbike: una formula che è nata proprio negli States addirittura nel 1973 come evento di contorno del Laguna Seca AMA National, per poi diventare ufficialmente il campionato AMA Superbike nel 1976.
E dunque, subito tanta potenza sotto il sedere, gare brevi e tirate, grande controllo della moto in derapata. E poi il gusto dello spettacolo, che è una qualità tipicamente americana: perché noi tradizionalmente abbiamo puntato sullo stile e sulla bella guida, nel mondiale si partiva dalle 50 e dalle 125, invece loro sono sempre stati portati per lo show e gli eccessi. Ricordo una recente battuta di Randy Mamola, riferita a quando, giovanissimo, venne a correre in Europa: «Da non credere: qui da voi si partiva a spinta! Mi pareva di essere finito tra i Ceceni». E disse Ceceni con lo spirito dello Yankee che non può comprendere l’anacronismo storico dell’Unione Sovietica. E poi naturalmente bisogna dire che gli Stati Uniti erano il mercato numero uno per i produttori giapponesi, e quindi c’erano ricchi importatori e tanti dollari da investire nelle corse: abbastanza mezzi da essere tentati di lasciare i grandi successi in casa per tentare la fortuna in Europa, appunto come fece per primo Kenny Roberts.

Da quel titolo di Kenny del ’78 fino al ’94 - con l’inizio del dominio Doohan - loro sono stati il riferimento assoluto. Poi il titolo 2000 di Kenny Junior (unico americano a punti in 500 quell’anno) e naturalmente il successo iridato di Nicky Hayden nel 2006. Ma tutti i cicli prima o poi si esauriscono. Nel caso degli americani, tante componenti hanno giocato a sfavore: la mancanza di formule per i giovanissimi, e dunque il ricambio generazionale; l’arretratezza dell’AMA, che è la loro federazione; poi la contrazione del mercato motociclistico; ma anche l’incidente di Rainey, il ritiro prematuro di Kevin tutto rotto, e infine la penuria di talenti. Non tutti nascono Roberts o Spencer. E poi le gare in circuito non sono mai decollate veramente, gli americani continuano a preferire gli ovali, dove si vede tutto restando seduti con la birra in mano, e anche le prove del mondiale di oggi hanno pochi spettatori, tanto che gli organizzatori sono in crisi.

Sul futuro adesso ci sta lavorando Wayne Rainey: il tre volte campione del mondo, costretto sulla sedia a rotelle dal settembre di 25 anni fa, ha deciso di non lasciar morire la leggenda a stelle e strisce. Il suo “MotoAmerica”, progettato insieme al figlio di Kel Carruthers, Paul, ha grandi ambizioni: per il momento il primo step è stato raggiunto portando Joe Roberts (pilota californiano del ’97) in Moto2. Si riparte con umiltà, ma Wayne è tosto, e non mollerà facilmente.

 

Steve Baker
Steve Baker

King Kenny: pilota e costruttore

Tutto in Europa cominciò con il Transatlantic Trophy, spettacolari scontri a squadre tra piloti inglesi e americani nella settimana pasquale.
Nel 1971 la prima serie fece scalpore: si corse a Oulton Park, Mallory Park, Brands Hatch,e  tutti gli sfidanti guidavano le tre cilindri Triumph e BSA. Quella prima volta vinsero i padroni di casa, ma piloti come Dick Mann entusiasmarono il pubblico. Poi nel ’72 il celebre Carl Rayborn vinse tre gare su sei con la sua Harley ufficiale, e si andò avanti così con i vari Gary Nixon, Don Emde, Dave Singleton fino alla vera consacrazione del 1974, quando apparve il giovane Kenny Roberts.
La squadra comandata da Barry Sheene quell’anno vinse ancora, ma per pochissimi punti; e l’anno successivo, 1975, la squadra Usa formata da Kenny, Dave Aldana, Gene Romero, Pat Hennen e Steve Baker suonò i britannici.

Quella era una gran bella formula, ma si esaurì per i troppi incidenti, le piste erano molto pericolose, Honda diede il veto seguita poco dopo anche da Yamaha. Noi, qui in Italia, ne sentimmo soltanto gli echi, ma nelle 200 Miglia di Imola imparammo a conoscere anche Gina Bovaird, la prima donna capace di raccogliere punti nel mondiale, e il povero Randy Cleek che proprio alla vigilia della corsa del Santerno si uccise sulla via Emilia con la macchina a noleggio. Fu un grande dramma.

Roberts merita un racconto a parte. Californiano di Modesto, classe ’51, destinato a fare il cow boy, a tredici anni già vinceva con le piccole 100 nel flat-track. Pilota Yamaha dal 1971, “expert” dall’anno dopo, campione nazionale nel ’73 con prove disputate su asfalto e su terra. Esordì nel nostro mondiale nel 1974 in 250: wild card ad Assen, pista difficile, ma stabilì la pole e il giro veloce, chiudendo terzo con Walter Villa vincitore. Quell’anno partecipò alle 200 Miglia di Daytona e di Imola e fu sconfitto da Agostini. Ebbene quando si ripresentò definitivamente, in quel 1978, disputò addirittura tre classi mondiali. La 250 (con due vittorie, poi la rinuncia a metà stagione), la 500 (con quattro successi e il titolo davanti a Sheene e Cecotto) e la Formula 750 con calendario a parte (persa solo all’ultima gara).

Fu lui il primo a spostarsi tanto in sella, e sempre lui a pensare a una sorta di primitivi slider, fissando dei pezzi di visiera al ginocchio della tuta con del nastro (americano). Dopo i suoi tre titoli consecutivi ebbe parecchia sfortuna: nell’81 fu terzo con campione Lucchinelli, cedette a Uncini nell’82, tornò grandissimo nell’83 ma come ricorderete perse il campionato all’ultima gara di Imola. In realtà vinse la corsa alla grande (sesta vittoria per lui), ma il giovane compagno Eddie Lawson non riuscì a recuperare dopo una brutta partenza e Freddie Spencer, secondo, si prese il titolo con la Honda per due punti soltanto. In quel 1983 quattro americani chiusero la stagione davanti a tutti, con Mamola terzo e Lawson quarto; e Roberts collezionò anche i successi nella 200 Miglia di Daytona e di Imola. 

Chiusa la carriera da pilota, si sarebbe dedicato alla creazione del suo team, con Yamaha fino al ’96: prima in 250 con Rainey e Carter (’84), poi dall’86 in 500 con Mamola, Rainey, Magee. Dal ’90 in bianco/rosso, impegnato in due categorie e subito bicampione del mondo con Kocinski e Rainey, fece del suo team il riferimento assoluto fino al ’96 (tra i suoi piloti anche il nostro Luca Cadalora) quando chiuse con la casa giapponese e fece da solo; prima con Modenas, poi con Proton, nel 2005 con KTM e infine con Honda fino al ritiro alla fine del 2007. Aveva entusiasmo e inventiva, era anche un ottimo organizzatore, ma i tempi si fecero grami, gli sponsor mancavano e comunque l’impresa tecnica era quasi proibitiva. 

Due cose mi piace sottolineare del Marziano: la generosità che lo spinse nel 1979 a lottare contro la FIM per tentare di organizzare un campionato autonomo con le famose World Series - l’idea si rivelò anche troppo ambiziosa ma gettò le basi del motociclismo moderno - e poi il record personale di famiglia. Campione mondiale della 500 il padre, campione  della 500 nel 2000 anche il figlio Kenny Junior, unico esempio nella storia del motociclismo.

 

Freddie Spencer con le Honda 500 e 250 della straordinaria doppietta del 1985
Freddie Spencer con le Honda 500 e 250 della straordinaria doppietta del 1985

Quindici titoli mondiali in 500

In ogni modo, l’impresa di Roberts trascinò in Europa una sfilza di campioni. Primo il talentuosissimo Freddie Spencer, con i tre titoli in sella alla Honda e la straordinaria doppietta 250+500 del 1985; poi Eddie Lawson, che veniva dall’Ama Superbike con la Kawasaski (in 500 con Yamaha, poi Honda e anche Cagiva), che è l’americano più vittorioso con quattro mondiali e 31 successi parziali. Seguono John Kocinski, iridato della 250 e poi protagonista in 500 con Yamaha e Cagiva (ma anche titolato della SBK con la Honda nel ’97); il grandissimo Kevin Schwantz, che ha conquistato un solo titolo nel ’93 ma ha vinto ben 25 GP, pilota funambolo e tutt'oggi bandiera della Suzuki.
E Randy Mamola, che non ha vinto titoli ma figura nella hall of fame e tuttora è in pista. Almeno da citare sono anche Doug Chandler, Bubba Shobert, Mike Baldwin, John Hopkins, Scott Russell, Matt Wait, Mike Hale, Kurtis Roberts e infine Colin Edwards e Ben Spies, che hanno comunque ben figurato in 500.
I numeri assoluti fanno effetto. Nella classe 250 i titoli mondiali firmati dai piloti statunitensi sono soltanto due (Spencer nel 1985 e Kocinski nel 1990), e le vittorie parziali diciassette (con Kocinski e Spencer, ma anche Roberts e Jim Filice); nella 500 il bottino è enorme: ben 154 vittorie con undici piloti (Lawson e Schwantz, poi Rainey 24, Roberts 22, Spencer 20, Mamola 13, Roberts jr 8, Kocinski 4, Hayden ed Hennen 3, Spies 1).

Eddie Lawson con la Yamaha 500 nel 1990
Eddie Lawson con la Yamaha 500 nel 1990

 

Nella top class gli americani hanno realizzato in gara quarantasette doppiette e hanno occupato ventun podi per intero. I loro titoli mondiali sono quindici, ed è bello che a lasciare la firma sull’ultimo sia stato proprio Nicky Hayden, scomparso purtroppo l’anno scorso. Nicky non aveva la classe di Roberts o il talento speciale di Spencer, forse non aveva nemmeno la tremenda determinazione di Rainey o l’estro acrobatico di Schwantz. Ma in quanto a passione non era secondo a nessuno, era entusiasta, era sportivo, era molto amato nel paddock e tutti lo rimpiangiamo.
E naturalmente, in conclusione non si può trascurare la lunga lista dei piloti americani vincenti in Superbike. Per cominciare, il forte californiano Fred Merkel, due volte campione del mondo (il primo nell’albo d’oro) con la Honda RC 30 del team italiano di Oscar Rumi; poi l’appassionatissimo Doug Polen, bicampione sulla Ducati con la 888, Scott Russell (mister Daytona) titolato con la 750 Kawasaki, John Kocinski, cui abbiamo già accennato, e la sua RC 45, Colin Edwards due volte numero uno con la VTR1000SP Honda, Ben Spies con la Yamaha R1, ultimo campione a stelle e strisce nel 2009; ma anche Ben Bostrom, eroe di Laguna Seca. Se non altro, in Superbike gli americani oggi impegnati sono due: Jake Gagne e e P.J. Jacobsen. Ma certamente chi ha vissuto gli anni Ottanta non poteva immaginare che quell’esaltante e schiacciante dominio americano potesse lasciare nel 2018 così poche tracce.

Nicky Hayden nel 2006, anno del suo titolo mondiale in MotoGP
Nicky Hayden nel 2006, anno del suo titolo mondiale in MotoGP