Per inviarci segnalazioni, foto e video puoi contattarci su [email protected]
Un breve viaggio nei sapori di una volta, quando il mondo delle corse era meno evoluto ma più pittoresco e “ruspante”, in particolare al di fuori dell’ambito dei Gran Premi. Si era lontani dalla esasperazione tecnologica attuale (comunque necessaria ai fini delle prestazioni) e tutto era enormemente più semplice e alla mano. Chi non era impegnato ai massimi livelli poteva preparare le moto senza particolari difficoltà e gareggiare con costi più che contenuti .
Diversi piloti erano anche abili meccanici e in vari casi accudivano da soli ai loro mezzi. Magari non erano i più veloci, ma di tecnica e di motori se ne intendevano davvero. Le gomme erano quelle disponibili, di una o due marche, ciascuna delle quali proponeva un solo tipo, in più misure; era uguale per tutti e rimaneva immutato per anni e anni. E naturalmente si usava con qualunque situazione meteorologica, asciutto o bagnato che fosse l’asfalto.
Per avere un’idea di come si correva una volta, nelle gare minori o comunque non di campionato mondiale, le immagini allegate sono forse più eloquenti delle parole…
La tragedia di Guidizzolo, alla Mille Miglia del 1957, costò la vita a 11 persone e in Italia pose fine all’era delle lunghe corse su strada. Niente più Milano-Taranto e Motogiro. Pure il numero delle gare che si disputavano sui circuiti cittadini diminuì drasticamente. Complice anche il vero e proprio collasso del mercato, le competizioni motociclistiche entrarono rapidamente in una grave crisi. Per le moto da GP da noi sarebbero rimaste solo Imola, Monza e Ospedaletti, se ad esse non si fossero aggiunte, all’inizio degli anni Sessanta, Modena (dove per molti anni si è svolta la gara che apriva la stagione, il 19 marzo) e le gare della cosiddetta Mototemporada romagnola, che si correva su circuiti stradali a Rimini, Riccione, Cesenatico e Milano Marittima.
I piloti juniores, che utilizzavano motocicli “sport”, spesso erano impegnati in gare di contorno sui tracciati romagnoli; per loro comunque c’erano altri circuiti, essi pure cittadini, organizzati grazie alla grande passione di alcuni motoclub. Si correva così a Giulianova, a Zingonia, a Treviso, a Pesaro e via dicendo, su percorsi talvolta ricavati nelle zone industriali.
In questo modo si è andati avanti per tutti gli anni Sessanta. Il mercato si è ripreso vigorosamente verso il termine del decennio. Le moto non erano più un mezzo di trasporto più o meno umile, che si impiegava quotidianamente per andare al lavoro, ma sono diventate straordinari oggetti di svago e divertimento per un numero sempre maggiore di appassionati. A porre fine all’era dei circuiti stradali è stata un’altra tragedia, la morte di Angelo Bergamonti, avvenuta a Riccione nel 1971. Ben presto è diventato operativo il circuito di Misano, mentre Vallelunga era già da tempo una importante realtà. Le moto andavano sempre più forte e pure nei paddock la situazione stava cominciando a mutare. Le semplici balle di paglia per proteggere i piloti, in caso di caduta, dall’impatto contro lampioni, muretti e altro non erano più all’altezza della situazione e appartenevano ormai al passato. Anche gli ostacoli ai margini del manto di asfalto diventavano sempre meno…
Dove le moto hanno continuato a correre su strada è stato nelle gare in salita. Le velocità erano relativamente modeste, data la tortuosità dei percorsi, e le moto non avevano certo potenze paragonabili a quelle da Gran Premio o alle derivate di serie di 750 cm3 o più. Era vantaggioso disporre di un’erogazione differente e di una grande agilità, il che spiega per quale ragione alcuni modelli che hanno dominato la scena in questo settore negli anni Settanta in pista non erano granché, e viceversa. Un esempio significativo è quello della Suzuki GT 380 tricilindrica. Naturalmente di un vero e proprio paddock e di box non era il caso di parlarne. Ci si arrangiava come meglio si poteva.
Anche oltreoceano per lungo tempo la maggior parte delle gare si è svolta su circuiti improvvisati o comunque su percorsi stradali. Facevano eccezione Daytona, ove la situazione è cambiata profondamente all’inizio degli anni Sessanta, e un paio di impianti semipermanenti come Sebring e Riverside. Per il resto, paddock ricavati in spiazzi di terra battuta o in piazzali delle zone industriali (come a Stockton). Si correva senza spendere tanto. Di particolare importanza erano le gare del Pacific Coast Championship, organizzato dalla AFM (American Federation of Motorcyclists), nelle quali per diverso tempo hanno corso assieme due o anche tre classi, con classifiche separate (175, 250, 350 e 500). Il motociclismo non era ancora uno sport popolare, negli USA…
I motorhome non esistevano e le roulotte sono state per lungo tempo una rarità; i più attrezzati avevano una tenda e potevano disporre di un furgoncino (da noi) o di un pick-up (negli USA). Nella maggior parte dei casi si utilizzavano i carrelli, ma non mancavano i piloti che la moto la trasportavano dentro l’auto, magari dopo avere tolto la ruota davanti o addirittura la forcella! E c’è stato anche chi ha portato la sua alle verifiche guidandola su strada, benché fosse senza targa e a scarico libero…
Forse parlare di un mondo naif e pittoresco è riduttivo. Quel che è comunque certo è che tutto questo non tornerà più. Come i tecnigrafi negli uffici tecnici, del resto.