Cos'è questa storia di Harley-Davidson che rinuncia alle politiche d'inclusione?

Cos'è questa storia di Harley-Davidson che rinuncia alle politiche d'inclusione?
La Casa rinuncia alla cosiddetta "DEI Policy", ma non è la sola a non volersi più occupare di inclusione "ad ogni costo". Come lei altre big company americane come Polaris (quindi Indian), John Deere e Jack Daniel's. Ok, ma perché è così importante farcelo sapere?
5 settembre 2024

Il cielo sopra Milwaukee ultimamente è burrascoso. Nuvoloni e raffiche di vento fanno sventolare un po' troppo forte il vessillo del bar and shield, al centro ultimamente di dibattiti di varia natura. Si va da quelli con i sindacati per la minaccia di delocalizzazione, a quelli dei tribunali per una causa persa per un incidente con un trike fino alla più recente che riguarda l'annuncio dell'abbandono delle "DEI Policy" ovvero le politiche aziendali in tema di "Diversity, Equality and Inclusion". In un comunicato la Motor Company ha annunciato infatti di non voler proseguire oltre e, in buona sostanza, di preferire concentrarsi nella costruzione di motociclette. Ok, questo pare lecito ai limiti dell'ovvio, ma perché avrebbe deciso di abbandonare questa politica e, ancor di più, perché ha deciso di comunicarlo in maniera ufficiale?

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La fuga dal "politicamente corretto"?

Nella nota la Motor Company spiega di non voler più prevedere il rispetto delle quote nella selezione del personale da assumere: d'ora in poi l'unico criterio sarà quello del merito e del talento. Non ci saranno più perciò posti riservati ma, allo stesso tempo, non ci saranno più neppure iniziative per promuovere l'inclusione e l'equità. Già dallo scorso mese di aprile 2024 non esiste più una funzione aziendale dedicata appunto al DEI, ma dopo le polemiche Harley ha deciso di chiarire la propria posizione. Che è ovviamente quella di un'azienda che ha un business specifico (vendere motociclette e correlati) e, come sappiamo, ha soprattutto una clientela (potremmo parlare proprio di fan) ben precisa. Gli obiettivi ora sono quelli di "avere dipendenti che rispecchino i clienti e le aree geografiche nelle quali si opera. E tutti debbono sentirsi benvenuti". Non si scelgono più dipendenti o fornitori in base a criteri di salvaguardia della diversità, dunque, ma con il caro vecchio metodo del merito. Verrebbe da ironizzare con il criterio della somiglianza più che della diversità. Anche le sponsorizzazioni e le affiliazioni alle organizzazioni sono state riviste. D’ora in poi dovranno essere vagliate a livello centrale o dalla Harley-Davidson Foundation. Il marchio si concentrerà solo sulla promozione del motociclismo e sulla propria community, oltre al sostegno che già viene fornito ai primi soccorritori, ai militari ed ai veterani. Harley non parteciperà più neanche alla graduatoria di HRC (Human Rights Campaign) sulle politiche aziendali relative ai dipendenti appartenenti alla comunità LGBTQ+. E anche la formazione dei dipendenti non avrà contenuti a sfondo sociale. Su tutto, conclude la Company, resta il motto fondante dell’Azienda: United We Ride.

L'attivista conservatore Robby Starbuck
L'attivista conservatore Robby Starbuck

Tutta colpa degli influencers "anti-woke"?

Il clima negli States è ancor più caldo che da noi su queste tematiche e non solo per via delle imminenti elezioni presidenziali. Già da anni - e la precedente elezione di Trump ne è stata la prova più evidente - sui social ci si scatena quando ci sono temi così divisivi. Ultimamente la Motor Company era stata presa di mira da un noto influencer e attivista conservatore, Robby Starbuck, che aveva pubblicamente accusato l'azienda di essere diventata "woke" e invitato al boicottaggio. Il termine "woke" letteralmente significa "sveglio" ed è stato coniato per tutte quelle politiche e pratiche progressiste di apertura alla diversità tanto che è diventato normale parlare di "woke capitalism" e di "movimento woke". Al di là che sia giusto o meno per un'azienda seguire queste prassi - e non è sicuramente l'oggetto di questo articolo - l'aggettivo "woke" è divenuto il modo dispregiativo con cui soprattutto i più conservatori indicano i bianchi troppo attenti alle esigenze delle minoranze. E capite bene che Harley, uno dei simboli industriali più patriottici d'America, non può essere etichettata in un modo che può suonare per buona parte della sua clientela addirittura come anti-americano. Ma al di là di Starbuck, che ora comprensibilmente gongola sui social, il nodo della popolarità online per un brand è diventato cruciale. Ecco perché Harley-Davidson non è la sola "big company" americana che oltre ad abbandonare queste politiche "woke" lo dichiara apertamente rivendicando il proprio (nuovo) posizionamento. E poco conta se il suo attuale AD, Jochen Zeitz, sia stato uno dei firmatari della CEO Action per la diversità e l'inclusione.

Con H-D ci sono altri marchi che, come lei, condividono se vogliamo un certo tipo di immaginario come John Deere e Jack Daniel's. Non solo: anche la stessa Polaris, dove nascono Indian e Victory, benché sul proprio sito parli ancora di equità e inclusione avrebbe già abbandonato la funzione DEI Policy. Se la scelta di questi marchi per certi versi non stupisce proprio per il loro carattere più, diciamo, tradizionalista, di certo fa più sensazione scoprire che queste politiche d'inclusione vengono criticate anche da aziende generalmente collegate ad un immaginario più liberal come Amazon, Meta e Google. Si badi bene che non stiamo sostenendo che queste aziende non tutelino la diversità o non la ritengano un valore fondamentale, ma semplicemente avviene che ostentare il sostegno a questo tipo di cause espone il marchio ad un argomento divisivo e polarizzante con potenzialmente dei danni d'immagine sui social network su cui gli utenti contrari scatenano i propri strali digitali.

Oggi sono gil stessi esperti di brand reputation a sconsigliare di pubblicizzare questo tipo di iniziative proprio per evitare di scatenare le tifoserie opposte che, a quanto pare, sono l'unico modo che abbiamo trovato per esprimerci online. E non ci vuole molto a capire che un'immagine negativa si può tradurre molto rapidamente in un bilancio in rosso.

Sarà forse un caso, ma rosso è proprio il colore con cui negli States vengono indicati gli Stati a guida repubblicana, gli stessi in cui si sta assistendo ad una progressiva sforbiciata dei finanziamenti pubblici destinati proprio alle politiche DEI. Attenzione, però, che non sono pochi neppure i progressisti che mettono in guardia sulla falsità delle politiche DEI e su come siano state usate per mostrarsi al passo coi tempi e inclusivi quando la realtà dei fatti è tutt'altra. In America più del 75% di coloro che cercano lavoro ritiene che le aziende applichino discriminazioni nella selezione del personale (fonte: Customer Engagement Insider di Philip Mandelbaum). Le stesse aziende che - probabilmente sempre sotto consiglio degli esperti di immagine che ora sostengono il contrario - nel periodo post pandemico sbandieravano la loro apertura e inclusività non hanno tradotto in fatti concreti le loro dichiarazioni e sempre più del 75% dei responsabili aziendali della funzione DEI risulta essere bianco.

Ci sono le elezioni, non si sa mai

Secondo un’indagine pubblicata dal Washington Post, il 61% degli adulti americani pensa che la DEI sia una cosa buona e un'altra indagine di Bridge Partners su quattrocento senior executives e decisori di risorse umane americani riporta che il 72% vorrebbe incrementare i programmi DEI nei prossimi 24 mesi. Infine secondo la Human Rights Campaign ben il 30% dei giovani nati fra il 1995 e il 2010 (la cosiddetta Generazione Z) si identifica come LGBTQ+ e, come si sa, sono anch'essi consumatori con un portafoglio stimato in 1,4 miliardi di dollari. Che facciamo, non li consideriamo? Ma questa Generazione Z è un target per un marchio come Harley-Davidson? Sicuramente numericamente oggi contano decisamente meno dell'attuale grande community harleysta di chi ha ben oltre i trent'anni d'età. Ma in prospettiva futura?

E a proposito di futuro non dimentichiamoci che negli States stiamo assistendo ad una campagna elettorale particolarmente sentita. Nel 2017, proprio quando nasceva il movimento Black Lives Matters e si cominciò a parlare di politiche woke, Trump fu eletto presidente con un grande supporto proprio dai social grazie al carattere divisivo delle sue dichiarazioni che aizzarono le tifoserie. Cosa potrebbe succedere in caso di una sua rielezione nell'adozione di politiche DEI? E cosa invece succederebbe se a vincere fosse la candidata democratica Kamala Harris? Forse a Milwaukee hanno già fatto la loro scommessa su chi potrebbe salire alla Casa Bianca o, forse, hanno semplicemente trovato il modo migliore per esporsi di meno.