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Molto è cambiato nel gruppo Dainese da quando, due anni fa, ci eravamo recati a Vicenza – e poi alla sede storica di Molvena – per conoscere meglio l’eccellenza veneta della protezione moto. Diciamo moto perché è l’ambito che più ci interessa, ma già allora, e ancora di più in queste ultime stagioni, Dainese ha esteso il suo interesse verso altri sport, applicando le sue innovative soluzioni protettive a sciatori, cavalieri e ciclisti. Ed è cambiata la proprietà, con un'operazione che ha visto l'azienda Dainese sdoppiarsi ed accogliere nella proprietà l'Investcorp, gestore del Bahrein che ha stretto un accordo con l'azienda vicentina a fine 2014.
Ci è sembrato opportuno, quindi, andare a trovare il nuovo (per noi) amministratore delegato Cristiano Silei, un passato di successo nel ruolo di Vice President Sales & Marketing in Ducati, e dal 2015 alla guida del gruppo vicentino, per farci raccontare direttamente da lui dov’è, e dove sta andando questo gruppo industriale quasi quarantacinquenne.
Partiamo da dove ci siamo lasciati: ormai due anni fa, alla vigilia dell’epocale cambio di proprietà con l’arrivo di Investcorp. Cosa è cambiato da allora?
«Iniziamo dicendo che l’azienda è stata acquistata ad inizio 2015 da Investcorp, che ora ne possiede l’80% mentre il restante 20% è stato mantenuto da Lino Dainese, che ha voluto restare come presenza forte. Io sono arrivato assieme ad Investcorp, con il chiaro mandato di sviluppare il grande tesoro del Gruppo Dainese, perché siamo un’azienda che ha le cose veramente importanti al posto giusto».
«Abbiamo marchi meravigliosi, cose che non richiedono due/tre anni ma decenni per essere costruite: la Dainese che l’anno prossimo compirà 45 anni, AGV addirittura ne ha 70. Due nomi che hanno fatto la storia del motociclismo e non solo, perché AGV è stata attiva anche in Formula 1, e Dainese stessa ora si occupa di sci, equitazione e tanti altri sport. Marchi costruiti in decenni di passione, dedizione, amore, con una missione molto chiara: quella di fare tutto il possibile per minimizzare i rischi di chi pratica sport dinamici. Un obiettivo che riusciamo a perseguire anche grazie alla nostra strategia protettiva testa-piedi, una possibilità che solo il gruppo Dainese può vantare».
«La nostra missione però non si limita a fare tutto il possibile per fornire agli sportivi prodotti d’eccellenza, all’avanguardia e di qualità assoluta, quanto anche quello di promuovere attivamente il concetto di protezione, di safety, in ogni circostanza possibile e immaginabile, anche attraverso la comunicazione… ad esempio con interviste come questa. Siamo sempre molto attivi nel comunicare l’importanza del concetto di protezione, lo facciamo nelle sedi più rilevanti. In sede di comunità, partecipando ai gruppi di studio per le nuove norme, lo facciamo ogni volta che ci rivolgiamo ai nostri rivenditori e ai nostri clienti, lo facciamo con la stampa – ci crediamo, per noi è una missione fondamentale».
«Sostanzialmente, quindi, mi trovo davanti all’obiettivo di prendere tutti questi valori, questi asset quali la nostra tecnologia, la conoscenza dei materiali, la capacità di produrre prodotti d’eccellenza, il blasone dei nostri marchi, e portarli in una realità più moderna ed internazionale».
Per avere un’idea della realtà di cui stiamo parlando citiamo un po’ di dati di fatturato.
«L’azienda sta crescendo a doppia cifra da due anni di fila. Il 2015 è stato un anno di grandi soddisfazioni: non abbiamo ancora ufficializzato il bilancio del gruppo, quindi non posso darvi un dato preciso, ma siamo attorno ai 150 milioni di fatturato senza contare Poc, azienda svedese specializzata nel mondo bici e sci che Dainese ha acquisito a metà dello scorso anno, e che ha quindi una mission molto simile. Quest’anno stiamo crescendo ancora in maniera importante, quindi l’obiettivo, considerando la presenza di Poc, è di passare i 200 milioni».
Com'è distribuito questo fatturato, da un punto di vista geografico?
«Diciamo che l’azienda è molto internazionale, ma il centro resta l’Europa; il gruppo in questo momento fa circa il 65/70% del suo fatturato qui. Ovviamente gli Stati Uniti rimangono comunque un mercato di riferimento, dove facciamo circa il 15% del fatturato, e il resto è in Asia».
Parlando di Stati Uniti, viene in mente come sia un mercato dove è importantissimo l’offroad, segmento che Dainese storicamente non presidia. Immaginate una possibilità di aggredire quei mercati?
«In effetti per il fuoristrada ci limitiamo a fornire protezioni, storicamente non ci siamo mai focalizzati su quel segmento, anche se in effetti il primissimo capo prodotto da Dainese sono stati un paio di pantaloni da cross. E poi, naturalmente, anche se il cross non è mai stato il nostro focus, non bisogna dimenticare i rally africani: Dainese ha contribuito a scrivere la storia della Parigi-Dakar, per esempio, vestendo praticamente tutti i piloti più importanti».
«Dividerei quindi la risposta in due: nel segmento dell’enduro inteso come viaggio avventura con le maxi, dove si arriva a condizioni estreme e i materiali sono importantissimi e quello che si indossa deve offrire protezione tanto dagli impatti quanto dagli elementi, abbiamo molto da spendere. Quando sarà il momento vi racconteremo nel dettaglio cosa abbiamo in programma, perché è un settore che è parte integrante del nostro DNA».
«La parte più crossistica ci interessa, perché percepiamo un forte bisogno di protezione. Certo, abbiamo tante cose da fare, e vanno messe in fila, ma non ci dimentichiamo dei crossisti. Ci sembra che oggigiorno, un po’ per l’evoluzione dello sport, un po’ per la maggiore attenzione che si presta alla sicurezza in questo segmento, ci sia bisogno di protezioni e soprattutto di protezioni di concezione più moderna».
Il cross ci interessa, perché percepiamo un forte bisogno di protezione. Ci vorrà tempo, ma non ci dimentichiamo dei crossisti
Magari, questo lo diciamo noi ma il collegamento ci sembra automatico, con la tecnologia D-Air. Che viene sviluppata con un rapporto sinergico, se non addirittura simbiotico, con D-Lab, la società creata da Lino Dainese.
«In effetti non ci siamo staccati, perché il 20% di D-Lab è di proprietà di Dainese, e guardando fuori dalla finestra vediamo i loro uffici. Peraltro Dainese detiene i diritti di utilizzo di tutti gli sviluppi tecnologici di D-Lab. Una cosa fondamentale, il vero gioiello dell’accordo fra Investcorp e Dainese: da un lato Lino Dainese è libero di occuparsi della sua passione, ovvero lo sviluppo tecnologico della protezione mantenendo al contempo una presenza forte nell’azienda che ha fondato, dall’altra Dainese può beneficiare di tutti gli sviluppi – siamo in una posizione fantastica che porta benefici ad entrambi».
«Peraltro abbiamo una divisione D-Air interna all’azienda, nello stabilimento di Molvena, guidata da Enrico Silani, e concentrata esclusivamente sullo sviluppo della tecnologia in ambito sportivo. D-Lab porta avanti questa ricerca in ambiti non sportivi, il resto lo facciamo noi: paradossalmente, abbiamo più risorse impegnate sul D-Air in Dainese che non in D-Lab. Del resto è la nostra tecnologia più importante, sulla quale investiamo più che in ogni altra applicazione. Quest’anno abbiamo lanciato l’applicazione sullo sci, e stiamo studiandone altre nel mondo dello sport, ad esempio con D-Armor. D-Lab si occupa invece di tutti gli altri segmenti, ad esempio la protezione degli anziani, o dei passeggeri degli autobus, o nel mondo del lavoro».
Esattamente dove ci eravamo lasciati nella nostra precedente visita a Dainese. In cui eravamo arrivati a parlare del futuro del D-Air, ovvero l’estensione della protezione al petto e agli arti dei piloti. A che punto siamo?
«Sul torace ci siamo, pensate ad esempio alla Misano 1000. Sicuramente stiamo andando in una direzione di allargamento della protezione; sugli arti, premesso che sulle braccia il tema è di minore applicabilità ed interesse, abbiamo allo studio altre cose proprio con D-Lab sugli arti inferiori, specificamente sul ginocchio, ma stiamo ancora studiando. L’argomento è molto affascinante ma anche molto complesso, quindi c’è bisogno di tanto studio».
E il collo?
«Stiamo studiando anche questo. E’ un ambito molto importante e molto delicato, quindi richiede uno studio lungo ed impegnativo, ma ci stiamo lavorando».
Dainese si è anche resa protagonista di una mossa assolutamente innovativa per il settore: quella di fornire la piattaforma D-Air a terze parti nell’uso agonistico attraverso il progetto D-Air Armor. Facciamo il punto anche su questa.
«Stiamo andando avanti, le adesioni si moltiplicano – crediamo che la protezione debba essere applicata quanto prima a tutti i piloti: è fondamentale che continuiamo a perseguire la sicurezza, iniziando dai piloti che, tra l’altro, rappresentano un esempio per il resto della popolazione, in quanto raffigurano l’estremo delle possibilità sia in termini di performance che in quelli di rischio: dunque è importante che abbiano accesso alla miglior tecnologia disponibile in termini di protezione. Dainese offre quindi a tutti la possibilità di proteggere i propri piloti; le prime adesioni sono state quelle di Furygan e Vircos, adesso abbiamo numerose altre adesioni, l’ultima delle quali è quella di Rev’It – Alex Rins sta utilizzando il nostro sistema già da tre gare, ma anche PSI in Superbike».
«Ve lo posso assicurare, non si tratta di un tema commerciale, perché si tratta di poche unità; per noi si tratta di promuovere il tema della protezione. La nostra tecnologia funziona, i dati sono chiarissimi, e vogliamo metterla al servizio dei piloti».
Vi immaginate la possibilità di estendere questo progetto alle tute di pelle della produzione di serie di questi vostri concorrenti?
«Per adesso ci limitiamo all’attività agonistica, ma in futuro lo valuteremo».
Il D-Air è nato come applicazione racing, poi è arrivata la declinazione Street con sensori applicati alla motocicletta. E poi ci avete spiazzato tutti con la Misano 1000, che ha un po’ rovesciato il paradigma iniziale integrando tutti i sensori all’interno della giacca…
«Un momento: non crediamo che si tratti di un rovesciamento della filosofia del D-Air. Abbiamo tre sistemi: racing, street e stand-alone, che naturalmente deriva dalle esperienze fatte con il racing applicandole ad un diverso ambito, e quindi a diverse condizioni di protezione. Diciamo che, in un mondo perfetto, il sistema Street è quello in grado di offrire il miglior grado di protezione, perché i sensori sono più vicini ad un eventuale punto d’impatto – questa considerazione è valida naturalmente per un solo impatto: scivolata ed high-side sono altri discorsi, per i quali, paradossalmente, il sistema stand-alone offre prestazioni migliori».
«In caso di impatto, un sensore sulla forcella, come avviene sul sistema Street o nel caso Ducati Multistrada – di fatto lo stesso sistema, uno applicato a posteriori e l’altro ex fabrica – è più vicino al punto d’impatto e quindi è in grado di reagire con alcuni millisecondi d’anticipo. E’ chiaro però che in ottica di promozione dell’adozione di questi sistemi, un sistema stand-alone in cui uno può indossare una giacca e partire è più intuitivo. La percezione, la ricezione diventa più semplice e naturale. Poi, chi è più attento o semplicemente viaggia di più e desidera un prodotto più performante, acquista lo Street, che proponiamo in diverse versioni, dal gilet alla giacca da turismo. Continueremo a svilupparli tutti e tre, lanciando nuovi prodotti su tutte e tre le modalità».
Restando in tema D-Air, quali sono state le differenze, le sfide più difficili incontrate nello sviluppo delle declinazioni diverse da quelle moto, come lo sci ad esempio?
«Sono naturalmente sport diversi, con esigenze e condizioni d’attivazione altrettanto differenti. La fase di studio diventa fondamentale, perché le condizioni di attivazione per uno sciatore in discesa libera, o Super-G, sono sostanzialmente diverse da quelle studiate per un motociclista. Bisogna conoscere intimamente il comportamento di un atleta per saper identificare correttamente le condizioni d’attivazione. Ci sono serviti 5 anni di sviluppo e raccolta dati con la FIS e il team austriaco, oltre che con gli italiani e gli statunitensi, per poter arrivare a dire con sicurezza che il sistema doveva arrivare ad attivarsi in determinate condizioni e non attivarsi in altre».
«Il cuore del sistema D-Air è il sacco, un’unità speciale contraddistinta da soluzioni uniche, come il monofilamento che permette l’espansione uniforme in 25 millisecondi, o la realizzazione monopezzo. Ma il cervello del sistema è la centralina, e la sua intelligenza è l’algoritmo che determina le condizioni d’attivazione sulla base di ormai migliaia di casi studiati. Il bello è proprio questo: più casi abbiamo, più impariamo, più raffiniamo il software. E un domani arriveremo a fare aggiornamenti delle logiche di attivazione sul circolante, in maniera da garantire all’utente prestazioni sempre migliori».
Questa posizione di preminenza dell’aria in contesto protettivo potrebbe richiedere un passo indietro alle soluzioni tradizionali. E’ così?
«Intanto chiariamo una cosa: noi siamo molto democratici, lasciamo al cliente la scelta sui metodi di protezione da adottare, e continuiamo a sviluppare con ancora maggiore impeto sulle protezioni tradizionali – abbiamo appena lanciato il Pro-Armor, per dire, e stiamo lavorando per espandere ancora di più la protezione tradizionale su tutti gli sport. Nello sci quest’anno abbiamo lanciato il Flexagon, il nuovo giubbotto protettivo con paraschiena a tecnologia Flex, sulla bici abbiamo tutte le nuove protezioni gomito-ginocchio».
«Detto questo, le due tecnologie lavorano insieme, con uno sviluppo apposito per l’integrazione fra le due: a seconda delle zone, ci saranno protezioni rigide o soffici, collaborando in maniera sempre più evoluta».
Parliamo di AGV e del progetto AGV Standards. Silei ci interrompe subito, per una precisazione molto importante.
«In realtà AGV Standards non è un progetto, ma un protocollo di sviluppo. E’ una distinzione importante, perché un progetto nasce, si sviluppa e giunge al termine. Un protocollo non ha una fine; il gruppo Dainese, in particolare con AGV, ha definito nuovi protocolli di sviluppo dei nuovi caschi adottando standard superiori a quelli previsti dalla normativa in tutte le aree, a partire dalla protezione al rumore, e quindi si sfida da sola a sviluppare caschi dalle prestazioni migliori a quelli obbligatori».
«Quindi il protocollo resta sempre valido. La domanda è: alzeremo il livello dei nostri standard per migliorare la protezione, la silenziosità e quant’altro? Certo, è evidente. Ma il protocollo, la filosofia di sviluppo, resteranno invariati: nascendo dalle corse, vogliamo sfidare la concorrenza, ma anche noi stessi, verso un costante miglioramento delle prestazioni su ciascuno degli standard. Se la domanda invece è “faremo caschi nuovi, con un nuovo design?”, la risposta è certamente, ritocchiamo sempre qualcosa. Anzi, se qualcuno osserva con attenzione le immagini degli ultimi Gran Premi, potrebbe notare che il casco indossato da Valentino Rossi è un po’ diverso dal solito».
«Mi piace tra l’altro lanciare una piccola provocazione. Jorge Lorenzo, Valentino Rossi. Stessa moto, stesse gomme. Uno ha dichiarato di aver subito problemi di spinning, lamentandosi tra l’altro del casco, l’altro no. Nel nostro entourage è risaputo, soprattutto rispetto alla Moto3, che l’aerodinamicità offerta dalla combinazione casco AGV-tuta Dainese è davvero efficace. Tra l’altro ci sono alcuni sviluppi sul casco – piccoli ma si vedono. Mi piace scherzare con provocazioni come questa, ma mi piace pensare che abbiamo contribuito anche a questo miglioramento prestazionale».
Vi immaginate anche qualche scenario di integrazione, tornando al discorso D-Air, fra il sistema airbag e il casco?
«Dainese crede da sempre nel testa-piedi, quindi nell’integrazione della protezione dell’essere umano, che è uno dei punti fermi della nostra filosofia. Certo, al momento stiamo facendo riflessioni a riguardo, perché ci sono punti di collegamento fra casco e tuta, quindi dobbiamo capire meglio quale sia la soluzione definitiva. Diciamo che già adesso c’è integrazione fra i due sistemi, perché casco e tuta sono studiati per lavorare insieme, dato che la sagoma dei nostri caschi è studiata per non interferire con la clavicola e la combinazione fra i due protegge dall’iperestensione».
Un’ultima domanda sugli standard, perché uno degli aspetti che più aveva incuriosito i nostri lettori era relativo alla rivoluzione copernicana della progettazione del casco, che nel vostro caso parte dall’interno invece che dall’esterno. Una delle prospettive lanciate era la possibilità di personalizzazione dell’interno. A breve?
«Non possiamo fare promesse a breve, ma chiaramente ci stiamo guardando. E’ evidente che quanto più l’interno di un casco è adattato alla forma della testa di una persona, tanto più migliorano comfort e protezione, quindi naturalmente un passo avanti nel nostro obiettivo di protezione».