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«Dainese è stata fondata nel 1972 da Lino Dainese, che iniziò producendo pantaloni in pelle per motociclisti. Parallelamente è nato l’impegno nel mondo delle competizioni, dove grazie ad alcuni grandi piloti – Dieter Braun è stato il primo, ma subito dopo è arrivato Giacomo Agostini – si è iniziata a sviluppare una coscienza relativa alla sicurezza»
Quindi basta con la leggerezza a tutti i costi: si sono iniziate a vedere tute che, seppur più pesanti, garantivano al pilota protezione e quella mobilità in sella indispensabile per vincere. Ecco allora pelli più spesse, doppie cuciture, protezioni su ginocchia e gomiti, ma soprattutto tute magari più scomode da indossare giù dalla moto, ma che in posizione di guida garantivano al pilota la massima mobilità.
«L’attività con i piloti è stata fondamentale per lo sviluppo delle protezioni: alcune richieste sono arrivate direttamente da loro, altre necessità sono state individuate da Dainese stessa. Riprendo il discorso di Giacomo Agostini, perché la richiesta iniziale di sicurezza è venuta da lui, noi abbiamo dato la risposta. La saponetta è un esempio di richiesta nata dai piloti, a causa del cambio di stile di guida portato da Kenny Roberts alla fine degli anni 70. I piloti hanno iniziato ad incollare sulle ginocchia pezzi di visiera con il nastro adesivo»
Diverso l’innesco che ha portato alla nascita del paraschiena, che si può collegare ad un momento preciso. Siamo alla fine degli anni 70, il pilota è Ray Quincey – un privato australiano che riporta una lesione alla colonna vertebrale a seguito di una caduta. E’ l’ultimo di una lunga serie di incidenti con conseguenze del genere, che ha portato la comunità motociclistica ad una profonda riflessione. La risposta è arrivata da Dainese.
«Nonostante concettualmente un paraschiena, insieme di strutture morbide e rigide, sia più vicino al mondo dei caschi che a quella delle tute, è stato Lino Dainese in persona a proporre questa risposta, lavorando con Marc Sadler, architetto divenuto poi molto famoso, per creare il back protector aragosta»
Una soluzione che, questo lo diciamo noi, nel 1998 viene inclusa nella collezione permanente del MoMa, il Museum of Modern Art di New York. Il paraschiena ha dimostrato immediatamente la sua validità, come ricordano i meno giovani: Freddie Spencer, a Kyalami, resta vittima di una caduta a seguito della rottura del cerchio posteriore Comstar della sua Honda NS. Finisce con la schiena sul cordolo ma si rialza sulle sue gambe, ringraziando pubblicamente Dainese. Da lì il paraschiena è entrato in produzione e si è diffuso in tutto il mondo.
«Il paraschiena è stato un po’ l’emblema di questa innovazione per la sicurezza, ma non possiamo dimenticarci tutte le altre soluzioni introdotte da Dainese, che le ha sviluppate nelle corse e le ha poi riproposte a tutti gli appassionati: i guanti con protezioni in misto kevlar-carbonio, protezioni composite, stivali con strutture interne in kevlar-carbonio, protettive e leggere»
Il concetto di sicurezza presenta però due aspetti contrastanti: protezione e comfort, come spiega meglio Cafaggi.
«Se io produco un paraschiena che protegge benissimo ma è pesante, non lascia traspirare e non lascia liberi nei movimenti non ho risolto niente, perché non lo indosserà nessuno – un aspetto essenziale nel migliorare la sicurezza del motociclismo passa per il fare protezioni che consentano di essere indossate con un impatto relativo ad ergonomia e comfort quanto più basso possibile. Se non si ricerca questo equilibrio – e si tratta di una ricerca continua e non facile – si rischia di creare strutture estremamente efficaci che nessuno però indosserà mai, soprattutto per strada. Per questo l’obiettivo ultimo di questo impegno nelle competizioni non è proteggere moltissimo pochi piloti, ma proteggere tutti noi motociclisti, che usiamo la moto sulle strade di tutti i giorni»
Se io produco un paraschiena che protegge benissimo ma è pesante, non lascia traspirare e non lascia liberi nei movimenti non ho risolto niente, perché non lo indosserà nessuno
Per Dainese il concetto di sicurezza è quindi un equilibrio fra protezione, comfort ed ergonomia con un fulcro diverso a seconda dell’impiego – in pista, su strada o in città. Questo è al momento il maggior punto di forza di Dainese: saper offrire sicurezza declinata secondo l’impiego specifico del capo che propone.
«Naturalmente il ruolo dei piloti nel trasferimento dell’esperienza dalle corse alla strada è fondamentale. Per uno sponsor tecnico un pilota non è un semplice veicolo promozionale; al contrario, se ben gestito, il pilota è uno strumento insostituibile nello sviluppo. Le competizioni sono tuttora il banco di prova più esigente; sappiamo bene che la dinamica degli incidenti è molto diversa fra strada e pista, ma non importa: le competizioni – anche in fuoristrada, come avviene alla Dakar – stressano l’attrezzatura come nessun’altra situazione. Se noi pensiamo all’equipaggiamento che indossa un motociclista oggi, possiamo tranquillamente affermare che l’85% proviene dalle competizioni – paraschiena, protezioni composite, caschi, stivali, guanti. La competizione motociclistica ha un tasso di trasferimento tecnologico in termini di sicurezza del motociclista che non trova riscontro in quasi nessuno degli altri sport. Il problema è che non lo si comunica a sufficienza»
Le gare rendono quindi più sicura la moto su strada, contrariamente a quello che pensano molti disinformati.
«L’accezione comune è che vedere una gara spinga all’emulazione e all’aumento dei rischi, ma nulla si dice del fatto che la protezione indossata quest’anno da Valentino Rossi, o Andrea Iannone, o Romano Fenati, tra un anno o massimo due sarà disponibile per tutti. Credo sia un aspetto fondamentale, che mette la collaborazione fra Dainese e i suoi campioni sotto una luce del tutto particolare perché i grandi campioni del motociclismo, da Giacomo Agostini a Valentino Rossi, sono quelli che sanno spiegare meglio cosa funziona e cosa no»
«Questo processo di trasferimento tecnologico ha naturalmente subito una forte accelerazione dagli anni 70 a oggi: l’evoluzione tecnologica stessa, il maggior parco circolante, il gioco della concorrenza e soprattutto una maggior coscienza relativamente alla sicurezza hanno fatto si che la velocità con cui si portano le soluzioni dalla pista alla strada sia aumentata, tranne naturalmente nel caso di soluzioni particolarmente innovative e complicate come l’airbag Dainese D-Air, nel qual caso le esigenze di urgenza del trasferimento passano in secondo piano rispetto alla necessità di offrire un prodotto efficace ed affidabile»
«Per Dainese l’impegno nelle competizioni per lo sviluppo del prodotto di serie è praticamente incondizionato fin dalla sua nascita» fa eco Fabio Muner, Marketing Manager Dainese «L’azienda è stata fondata nel 1972, e già l’anno dopo abbiamo iniziato ad impegnarci nelle competizioni. Ad oggi siamo presenti in MotoGP su tutte e tre le categorie, nel Mondiale Superbike, al Tourist Trophy, nel Mondiale Endurance, nella British Superbike nonché nei vari campionati nazionali – CIV, CEV, AMA e quant’altro»
«In MotoGP siamo presenti a fianco di Valentino Rossi sia con Dainese che con AGV; Valentino ci ha aiutato molto nello sviluppo sia del PistaGP, il nostro casco di punta, sia del sistema di air-bag D-Air Racing che oggi diamo a tutti i nostri piloti ed è disponibile presso i punti vendita. In MotoGP assistiamo da molti anni Nicky Hayden, importantissimo soprattutto da un punto di vista commerciale sul mercato americano ma anche il fresco campione Moto2 Pol Espargaro, su cui puntiamo molto per il futuro. Abbiamo Andrea Iannone, che credo farà molto bene anche in Ducati, e Stefan Bradl, pilota molto importante per noi per molti aspetti – da un lato ci ha aiutato molto tempo fa nello sviluppo del D-Air, dall’altro, su un piano più romantico, abbiamo sempre seguito suo papà Helmut: lui è la continuazione naturale. Piccola curiosità: la tuta più piccola nel nostro archivio è una di quelle di qualche anno fa di Stefan. In Moto2 assistiamo Salom e Sandro Cortese, e in Moto3 abbiamo un bellissimo progetto con Sky e con VR46 per crescere giovani in grado di contrastare la scuola spagnola che ultimamente ha monopolizzato i podi»
«Siamo presenti anche in maniera ufficiale al TT – quasi un controsenso, per un’azienda come la nostra, ma se ci si pensa non è vero: cerchiamo di fare del nostro meglio per rendere più sicura la corsa più pericolosa del mondo, sia mettendo a disposizione dell’organizzazione barriere air-fence, sia proteggendo i nostri piloti (Conor Cummins e Guy Martin) con il meglio della tecnologia a disposizione»
Potrebbe sembrare strana la nostra partnership con il Tourist Trophy nel ruolo di Safety Partner, invece è vero il contrario: è dove c’è più bisogno di protezione e sicurezza che cerchiamo di dare il nostro contributo
Vittorio Cafaggi interviene e ci spiega meglio il concetto nei suoi risvolti pratici.
«Potrebbe sembrare strano, considerando il nostro impegno per la sicurezza, la nostra partnership con il Tourist Trophy nel ruolo di Safety Partner, invece è vero il contrario: è dove c’è più bisogno di protezione e sicurezza che cerchiamo di dare il nostro contributo, coscienti del fatto che quello che possiamo fare è solo limitare le conseguenze di un incidente. Non vorrei mai che i motociclisti pensino che dotandosi di un paraschiena avessero un passaporto per l’invulnerabilità»
«Il Tourist Trophy è stato molto importante per lo sviluppo del D-Air, il nostro airbag per motociclisti, perché rappresenta l’anello di congiunzione fra le corse e la strada: come sapete produciamo due declinazioni di questa piattaforma, il D-Air racing e il D-Air street. I rilevamenti effettuati con Guy Martin ci hanno consentito di capire esattamente la linea di demarcazione dei due sistemi, che rispondono ad esigenze molto diverse – abbiamo potuto usufruire di quella che di fatto è la maniera più veloce al mondo di guidare per strada»
Riprende la parola Muner, per completare il panorama e raccontare come l’impegno nelle competizioni possa migliorare il prodotto finale.
«Un’altra bellissima collaborazione l’abbiamo sempre in Gran Bretagna nella BSB, con lo staff di Jonathan Palmer: anche qui siamo stati chiamati per cominciare a sviluppare una piattaforma sempre più protettiva per i piloti impegnati nei loro campionati. Là si corre su piste molto diverse dalle nostre per standard di sicurezza, e ci sono davvero tanti piloti in pista contemporaneamente: quando Palmer ci ha mostrato i video delle gare siamo rimasti gelati. Con loro abbiamo introdotto un’evoluzione del D-Air Racing, che internamente chiamiamo Thorax, in cui il sacco viene esteso a coprire la zona del torace quasi come avviene sulla versione street – l’obiettivo è cercare di limitare le conseguenze sui piloti che dopo la caduta vengono investiti da altri concorrenti. In MotoGP abbiamo portato avanti questo sviluppo grazie a Luis Salom, che utilizza il sistema Thorax in gara da diversi anni: l’obiettivo è arrivare a sostituire in qualche maniera il D-Air racing tradizionale una volta che si rivelerà pienamente efficace»
L’impegno di tanti anni ha naturalmente portato a conoscere in prima persona i piloti e le loro peculiarità, dando vita ad infiniti aneddoti.
«La sicurezza e la protezione rappresenta qualcosa di molto personale per i piloti, legati a cui ci sono aneddoti molto particolari: da Gresini che correva con un santino di Sant’Antonio nella tuta, a Lucchinelli che come molti ricorderanno ha fatto una gara con camicia e cravatta sotto la tuta. Ricordo anche John Kocinski, pilota di grande talento ma estremamente bizzarro, che ci chiese una tuta in un materiale plastico usato nell’arredamento, una cosa che si sarebbe sciolta solo a vedere l’asfalto. Oltretutto era fucsia metallizzato, una cosa veramente inguardabile. Parlando di caschi, chi ricorda Gobert sa quanto fosse imprevedibile: una volta fece pipì nel casco di Kocinski, che da parte sua era ossessionato dalla pulizia – una scena da sbellicarsi dalle risate. Un altro aneddoto curioso, e tipicamente giapponese: Tokudome, pilota promettente della 125 della seconda metà degli anni 90. Un giorno si presenta al racing service dicendo che i guanti non andavano bene – strano, perché erano realizzati su misura. Di colpo, dopo avermi spiegato il problema si blocca. Va via e torna dopo un quarto d’oro e mi dice "Vittolio, guanti peffetti!” – si era tagliato le unghie e i guanti tornavano a calzare bene!»