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Nella prima metà degli anni Novanta la classe 750 era probabilmente quella di riferimento per quanto riguarda i modelli sportivi di serie con motore a quattro cilindri.
Il mondiale Superbike stava inoltre vivendo un periodo di grande popolarità e pure lì a monopolizzare l’attenzione e l’interesse degli appassionati erano, oltre alle bicilindriche Ducati, la cui cilindrata ormai superava i 900 cm3, le quadricilindriche 750.
La Kawasaki ha puntato con decisione su tale classe, con eccellenti modelli destinati ad impiego stradale e ormai pensati anche nell’ottica di un eventuale impiego agonistico.
L’ultima evoluzione del motore con alesaggio di 68 mm e corsa di 51,5 mm è stata impiegata nella ZXR 750 (ovvero ZX 750 H) presentata a Colonia nel 1988 e commercializzata dall’inizio dell’anno seguente.
Nel motore cambiava ben poco rispetto alla versione originale, apparsa con la 750 GPX. Restava la catena di distribuzione centrale mentre era diversa la testa che ora alloggiava punterie a bicchiere al posto dei bilancieri a dito.
Completamente nuova era la ciclistica, con telaio a doppia trave di alluminio completata da una culla inferiore amovibile, assai simile a quello della ZX-10 entrato in produzione un anno prima.
Il grosso airbox era alimentato da due tubi corrugati di rilevante sezione che ricevevano l’aria fresca (in quanto non riscaldata dal passaggio attraverso il radiatore) da due prese praticate nella parte anteriore della carenatura.
Un’ottima moto ma ben presto è stato evidente che per essere davvero competitivi ci voleva qualcosa di più.
I tecnici della casa di Akashi hanno allora progettato un modello dotato di un motore completamente nuovo, che è entrato in produzione nel 1991. La moto si chiamava sempre ZXR-750 ma ora veniva realizzata in due versioni, delle quali una aveva prestazioni sensibilmente superiori. Quest’ultima era anche nota, su certi mercati, come ZXR 750 R e aveva una potenza di 121 CV a 11500 giri/min (mentre l’altra disponeva di 100 CV).
Il motore aveva diverse misure caratteristiche, con un alesaggio di 71 mm e una corsa di 47,3 mm ed effettivamente rappresentava al meglio lo stato dell’arte dell’epoca nel campo dei motori di serie di altissime prestazioni. La catena di distribuzione era piazzata sul lato destro e l’albero a gomiti poggiava su cinque supporti di banco. L’angolo tra i due piani sui quali giacevano le valvole (del diametro di 29 mm alla aspirazione e di 25 mm allo scarico) era di soli 20°, autentico valore record.
Gli eccentrici agivano su bilancieri a dito e il blocco cilindri era del tipo open deck, con canne in ghisa riportate a secco. Il nuovo telaio, sempre a doppia trave portante, era adesso privo della culla inferiore.
In versione Superbike questa moto è arrivata ad erogare circa 150 cavalli a un regime di 13800 giri/min, corrispondenti a 200 CV/litro e a una velocità media del pistone di 21,8 m/s. Si trattava di prestazioni eccellenti, che hanno consentito a Scott Russell di portarla tre volte al successo nella 200 miglia di Daytona e di imporsi nel mondiale Superbike del 1993.
Questa straordinaria 750 ha anche conquistato quattro campionati Endurance.
Nel 1993 la Kawasaki 750 è stata rivisitata, ma il motore è rimasto praticamente invariato. Sono scomparsi i “tuboni” ed è stato adottato un sistema di aspirazione con una singola presa dinamica di grandi dimensioni, ricavata nella parte anteriore sinistra del frontale della carenatura, a lato del doppio faro. Veniva quindi ottenuta una sorta di efficace sovralimentazione dinamica, con l’airbox che veniva messo in pressione sfruttando la velocità di avanzamento della moto, quando quest’ultima era molto elevata.
Le moto del mondiale superbike nel 1994 sono state dotate di un comando della distribuzione a cascata di ingranaggi, per tornare in seguito alla catena (a causa del regolamento).
Una autentica rivoluzione ha avuto luogo nel 1996. Per realizzare la nuova ZX-7, proposta in versioni R e RR, si è infatti provveduto a una completa riprogettazione.
Le misure caratteristiche sono passate a 73 x 44,7 mm (con un rapporto corsa/alesaggio pari a 0,612, record per le 750 quadricilindriche) e l’angolo tra le valvole è stato portato a 25°.
Il blocco cilindri è diventato closed deck, con canne riportate in umido del tipo con bordino di appoggio superiore. Nella testa i bilancieri a dito sono stati sostituiti da punterie a bicchiere. Le valvole di aspirazione avevano un diametro di 28,5 mm e quelle di scarico di 24,5 mm.
Nella parte ciclistica veniva mantenuto un telaio a doppia trave portante in lega di alluminio, privo di culla e dal disegno analogo a quello precedente e spiccavano le pinze dei freni, ora a sei pistoni.
La versione RR erogava 122 CV a 11800 giri/min e aveva un massimo regime di rotazione di 12800 giri/min (1000 giri di “allungo”, dunque prima che entrasse in funzione il limitatore). La potenza specifica era 168 CV/litro e la pressione media effettiva (PME) raggiungeva 12,4 bar.
Anche in questo caso dal modello di serie è stata ricavata una versione destinata alle gare delle Superbike, che è stato sviluppato fino a raggiungere sul finire degli anni Novanta una potenza dell’ordine di 170 cavalli a quasi 15000 giri/min, corrispondenti a oltre 225 CV/litro e a una PME di ben 13,6 bar.
Questo però non bastava a fare ancora della Kawasaki 750 una moto vincente; la concorrenza aveva qualcosina in più. La Superbike stava attraversando un periodo di crisi, con un minor numero di partecipanti e una certa perdita di interesse da parte degli appassionati e dei media. Questo ha portato i responsabili dell’organizzazione del mondiale a modificare il regolamento, portando la cilindrata dei quadricilindrici a 1000 cm3.
La Kawasaki ha perso per alcuni anni interesse per il campionato SBK e ha concentrato le sue attenzioni sulle gare delle 600 Supersport, con risultati che ben presto sono risultati straordinari. (Segue)