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Sono passati undici anni dal momento in cui ho smesso di andare in moto. Non ho mai capito bene se la mia era una decisione logica oppure una specie di intuizione, un suggerimento arrivato dal subconscio scosso dalla mia consapevolezza di essere diventato padre di una bambina meravigliosa che avrebbe avuto bisogno di me nella vita, dal carico di responsabilità che improvvisamente ho sentito di avere nei confronti della mia primogenita, come se lei avesse messo in discussione tutti i miei comportamenti, tutti i modi di condurre la vita che mi distinguevano prima della paternità. Mentre lei cresceva mi soffermavo a riflettere sul mio passato, alle situazioni difficili che avevo vissuto, in equilibrio su fili pericolanti dove spesso non ci camminavo e basta, ma addirittura ci ballavo la rumba, con l’arroganza e la spensieratezza con cui i più giovani prendono in giro il destino, un destino che, come ho scoperto più tardi, non ha l’abitudine di buttare nel dimenticatoio le offese e ha un bel senso dell’umorismo nel rivendicare il proprio potere sugli uomini.
Così, durante i primi giorni da padre, tenendo tra le braccia la mia prole, addolcito e investito in pieno dal potentissimo tsunami dei sentimenti, in quel gigantesco universo dell’estasi che prova un genitore all’inizio dell’avventura più importante della propria vita, ho cominciato ad avvertire una visione confusa e frenante, mescolata a quella tipologia di pensieri che mandano in tumulto la nostra mente tanto da far tremare il cuore senza mai materializzarsi in un pensiero concreto. Guardavo negli occhi profondi la mia bambina e per la prima volta nella mia vita ho compreso quale fosse la mia priorità, accantonando così inesorabilmente la mia voglia di andare in moto per paura sì. Una paura che solo oggi ho capito essere stupida.
All’epoca ero un felice possessore di una naked a carburatore, modificata in un’officina di Torino in versione street racing, con modifiche che mi piaceva pensare non fossero conformi alla legge (forse era così o forse anche no). Era una moto nervosa e nonostante fosse di piccola cilindrata, abbastanza cattiva sulla strada. Se guidando mi lasciavo trasportare dal sentimento, presto mi accorgevo di entrare nelle rotonde sulla sola ruota posteriore, il che, dopo i lanci con la paracadute eseguiti nell’esercito, le risse con l’utilizzo delle armi bianche e due divorzi era una delle faccende più rischiose che mi erano capitate nella vita. Non sono stato mai un’acrobata sulla moto, mi piaceva viaggiare, soprattutto. Prima ancora per esempio avevo avuto due custom, belle moto da strada. Dopo la nascita della mia piccola, a cuor leggero, quasi come se fosse una liberazione, ho regalato la mia moto al mio amico sardo Paolo, festeggiando la fine dell'epoca motociclistica con una settimana di pace tra le colline di Barbaggia, in mezzo alle pecore bollite, porceddu e formaggio, mentre annegavo nel Cannonau.
Hegel scriveva: «Ciò che è noto, non è conosciuto. Nel processo della conoscenza, il modo più comune di ingannare sé e gli altri è di presupporre qualcosa come noto e di accettarlo come tale». Per undici anni mi sono sforzato a convincere me stesso e le persone che mi conoscevano di non avere niente a che fare con le moto, trattando questo argomento come un periodo della vita superato, chiuso per sempre. La tenacia di Moreno, brand and content manager di Moto.it nel riportarmi in sella, offrendomi una Triumph Street Twin in occasione del Distinguished Gentleman's Ride a Milano ha risvegliato in me lo spirito di motociclista, che come il lupo mannaro ha preso il sopravvento sulla mia debole natura peccatrice.
Questa è la cronaca della mia esperienza al DGR. Che, da lontano, negli anni passati ho sempre vissuto come un evento per fighetti. Ma non avevo capito niente. Niente. Primo perché è un evento benefico e secondo perché ho conosciuto molte altre persone, sane e di valore, prime fra tutte quelle della crew di Moto.it e Triumph, main partner mondiale dell'iniziativa. La moto me la consegnano sabato pomeriggio. Ci salgo sopra, e provo un’emozione inspiegabile che mi fa tornare indietro nel tempo. Undici anni sono tanti, così tanti da non ricordarmi nemmeno come si accende una motocicletta. O meglio: da non ricordarmi che se hai il cavalletto abbassato la moto non parte. Domenica mattina mi sveglio presto, mi vesto per l’occasione e con un gruppo di amici mi avvio verso Lù-po dove incontro il resto della crew. Il locale si trova in Via Arese ed è un bar in stile vintage nella zona del Motoquartiere. Saluto Moreno con un abbraccio, appena arrivato dopo un viaggio di ben tre ore, e lo lascio alla sua preparazione d’abiti. Nel frattempo conosco i miei compagni di viaggio: l’attore comico Paolo Casiraghi, l’attore Eros Galbiati e il fotografo Gabriele Micalizzi. Mondi diversi ma accomunati da una forte passione, come quella delle due ruote, e uno scopo benefico. Si, perché il DGR non è solo una parata ispirata ai valori Triumph dove la gente si veste in chiave british, è un’evento con un obiettivo ben preciso ossia raccogliere fondi a favore della ricerca sul cancro alla prostata e per sovvenzionare programmi di prevenzione per la salute mentale maschile. La combinazione di questi due elementi e l’operazione di convincimento da parte di Moreno per farmi diventare un membro del team, mi hanno portato ad accettare l’invito. In sella alle nostre Triumph, scattiamo qualche foto di gruppo e poi partiamo verso il Pirelli Hangar Bicocca punto di ritrovo con tutti gli altri riders che rispondono perfettamente all’outfit richiesto. Uomini in completo in tweed, giacca elegante, cravatta, papillon, sembra quasi un evento di moda ma le vere protagoniste sono le moto, alcune personalizzate per l’occasione. Lo sfondo a mattoni dello stabilimento diventa il background dei nostri ritratti fotografici scattati da Micalizzi e dopo aver immortalato i momenti prima della partenza, giunge l’ora di partire.
Ebbene, così tante moto tutte insieme forse non le avevo mai viste. Sicuramente non le avevo mai viste passare in centro a Milano. Il gruppo diventa compatto e lo spettacolo visivo colpisce lo sguardo di coloro che si fermano ad ammirare l’entrata dell’Hangar. Iniziamo a sgasare, a suonare il clacson fino allo sventolamento di due bandiere a scacchi che sanciscono l’inizio della parata. Mi affiancano i miei compagni di viaggio ma incuriosito dal suono alle mie spalle, mi volto e mi rendo conto di non riuscire a scorgere la fine del gruppo. Siamo tantissimi ed è una bella giornata perché oltre alla mia gioia di riassaporare il gusto di passeggiare per le vie di Milano su una moto, siamo tutti riuniti per una buona causa. La meta finale è lo Spirit de Milan, un vecchio stabilimento industriale che conserva un aspetto rude e abbandonato con l’edera che ricopre le pareti. La piazza centrale ospita tavolini, sedute, un palco per l’orchestra e street food. Accolti nella Triumph Lounge, pranziamo all’aperto insieme ad altri partecipanti illuminati dal sole di fine settembre. Il meteo è complice. Parliamo di moto, di passioni e ognuno racconta le proprie storie. A metà pomeriggio, dopo le premiazioni, i discorsi, le sessioni fotografiche, sono uno degli ultimi ad andare via. Questa giornata mi ha lasciato un che di comunità, la sensazione che stare insieme e farlo senza pensieri è una delle cose più belle che possa capitare nella vita. Quando mi rimetto in sella alla Street Twin per tornare a casa sono arricchito da un’esperienza che non vivevo da un po' di tempo. Undici anni e forse di più. Undici anni e forse una vita, perché una cosa così riempitiva a livello di anima, in moto, forse non l'avevo mai provata. L’esito? Da due giorni sono attaccato a Moto.it cercando la moto dei miei sogni. L’uomo può mentire a se stesso a lungo, ma non può farlo per sempre.