Dunes, il mito Dakar secondo Dainese Settantadue

Dunes, il mito Dakar secondo Dainese Settantadue
Ogni anno Dainese Settantadue racconta una storia attraverso i suoi capi. Con la nuova collezione Dunes, è il turno del mito legato alla Parigi-Dakar. Ed è proprio pensando alle edizioni eroiche degli anni Ottanta e Novanta che abbiamo fatto un tuffo nei ricordi, in compagnia di Nico Cereghini, prima di farci raccontare da Renato Montagner, cosa l'abbia mosso nella definizione delle linee e dei tratti caratteristici della nuova collezione
9 luglio 2019

C'è stata un’epoca, nemmeno tanto lontana, in cui Dainese è stata protagonista assoluta anche tra le dune del Sahara. Al fianco dei piloti: protagonista nella loro protezione, naturalmente, e nell’evoluzione dell’equipaggiamento. Stiamo parlando del periodo d’oro dei rally africani e della mitica Parigi-Dakar, quella che si disputò dalla metà degli anni Ottanta alla fine dei Novanta.

Tra i piloti italiani c’erano Franco Picco, Edi Orioli, Ciro De Petri, Claudio Terruzzi e tanti altri. In quegli anni il rally più famoso del mondo divenne molto popolare anche da noi attraverso la televisione, i nostri motociclisti iniziarono a farsi valere e a vincere, le Case italiane entrarono in gara con ambizioni sempre crescenti: Cagiva con le sue poderose bicilindriche motorizzate Ducati, Gilera e Aprilia con le monocilindriche, tutti i reparti corse lavorarono assiduamente sul tema delle dune africane.

Era un’epoca in cui l’Avventura con la A maiuscola rappresentava un genere di grande successo su tutti i media, il mio amico Ambrogio Fogar con Jonathan dimensione avventura vinceva il Telegatto, il pubblico sognava i viaggi più audaci, e così la Parigi-Dakar divenne un evento motoristico molto importante, sponsorizzato con munificenza, il più seguito nella stagione invernale. Anche perché aveva contenuti tecnici, sportivi e umani di enorme valore.

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Ricordo quando Jean Todt, d.s. Peugeot, lanciò in aria una monetina da dieci franchi per decidere chi avrebbe vinto il rally del 1989

Si trattava di una corsa lunga dai diecimila ai tredicimila chilometri, anche ottocento chilometri al giorno seguendo le indicazioni del roadbook su percorsi vergini e affascinanti. Le pietraie dell’Algeria, le dune del Sahara e poi il terreno duro e piatto del Tenerè dove i prototipi bicilindrici come la Cagiva volavano a 180 all’ora con settanta litri di carburante a bordo.

Chi ama l’off road non può immaginare niente di meglio, ma i pericoli erano tanti. E se difficilissima era la guida, forse ancora più difficile era la navigazione con il solo aiuto della bussola, tanto che perdersi e restare soli per giorni, in mezzo al deserto, era una eventualità che capitava di frequente.

Partenza da Parigi a Capodanno, imbarco a Marsiglia. Approdando prima in Algeria, poi in Marocco e quindi in Libia. Perché il percorso cambiava: Niger, Tchad, Mali, Mauritania, Alto Volta, Costa d’Avorio, Sierra leone, Guinea, Senegal furono le nazioni attraversate. Nel 1992 puntammo da nord a sud fino a Città del Capo, poi la corsa divenne sempre più difficile da tracciare per via delle tensioni politiche nel continente nero.

Alla prima edizione del 1979 erano 182 gli equipaggi iscritti: 80 auto, 90 moto e 12 camion; dieci anni dopo ecco il record assoluto con addirittura 603 partenti, 311 auto, 183 moto, 109 camion. Tra piloti, meccanici, commissari, giornalisti, fotografi e tecnici vari, una carovana di circa duemila persone. 

Nemesi tragica, il fondatore Thierry Sabine fu vittima della sua stessa creatura e si fracassò con l’elicottero su una duna di sabbia. Era il 14 gennaio del 1986, fu un dramma, ma il rally era lanciato e gli sopravvisse.

Da inviato Mediaset ho tanti ricordi e uno incancellabile: il francese Hubert Auriol era in testa, dominava con la Cagiva e cadde a venti km dall’arrivo nella tappa numero 19 dell’edizione 1987; riuscì in qualche modo a ripartire, ma aveva entrambe le caviglie fratturate: all’arrivo della speciale chiese aiuto, qualcuno resse la moto, lui si piegò sul manubrio e piangendo ci raccontò l’incidente.

Era lì sdraiato a terra di fianco alla sua Cagiva con i medici intorno che provavano a sfilargli gli stivali, e singhiozzò ancora più forte quando Cyril Neveu, che era secondo, venne a consolarlo senza riuscire a spegnere il sorrisetto del vincitore che aveva in faccia.

Ricordo quando Jean Todt, d.s. Peugeot, lanciò in aria una monetina da dieci franchi per decidere chi avrebbe vinto il rally del 1989: tra Vatanen e Ickx toccò al primo, e il secondo era una furia. E provo ancora l’ansia che vivemmo nel gennaio del ’91, in Mauritania, quando la guerra del Golfo era nel vivo e i parenti di Saddam Hussein si erano rifugiati proprio in quel Paese, fedelissimo del rais iracheno. Aiuto! Resteremo bloccati qui? «Tappa annullata, restate tutti uniti!» fu la decisione della direzione gara.

Alla frontiera nel deserto la tensione era palpabile, ma passammo. E risale a quattro anni prima il mio più grande divertimento sulle dune di sabbia: il giorno dopo l’arrivo dell’edizione 1987, riuscii a provare per Italia 1 la Honda bicilindrica vittoriosa con Neveu, la BMW boxer di Rahier, la Yamaha mono di Picco e persino l’eccessiva FZ quattro cilindri di Olivier…Che pacchia!

La collezione e il mito

È al mito della Parigi-Dakar che la nuova collezione Dunes oggi si ispira. Al mito e alle esperienze che Dainese ha raccolto in tanti anni di impegno africano.

Edi Orioli ha vinto quattro edizioni del rally su Honda, Cagiva e Yamaha; è il re dei piloti italiani, il più accorto tra quelli molto veloci. Dal suo esordio nell’86 – sesto assoluto e miglior debuttante con la Honda mono – è stato un riferimento per tutti, anche per Dainese. «Fino all’88 eravamo vestiti solo di pelle» ricostruisce il friulano «e poi dalla mia prima vittoria, quella dell’88 con la bicilindrica, Dainese ci traghettò progressivamente al Goretex. Più comfort ed efficienza in quelle condizioni al limite. E quel giorno partì l’evoluzione di ogni particolare: protezioni fisse e mobili, cerniere, prese d’aria, camel bag… Pensa che il mio primo camel bag era fatto di borracce saldate insieme e rivestite di feltro per tentare di mantenere fresco il liquido, e per trovare il tubicino e portarlo alla bocca dovevi togliere la mano dal manubrio».

Fino all’88 eravamo vestiti solo di pelle. Poi, dalla mia prima vittoria, quella con la bicilindrica, Dainese ci traghettò progressivamente al Goretex

Si correvano rischi enormi, alla Dakar: c’era da perdersi, c’era da cadere rovinosamente come quando Orioli centrò ad alta velocità un cavallo, sbucato sulla pista nell’ultima speciale dell’89. «Quella volta ho chiuso gli occhi e sono volato oltre l’animale, che nello scontro ha avuto la peggio. Meno male che avevo ogni genere di protezione, la moto era distrutta sulla parte davanti, cupolino fracassato, roadbook schiacciato, lo sterzo mezzo bloccato… Ripresi subito la speciale, ma in senso inverso! Un pilota francese per fortuna mi bloccò. Il manubrio non girava del tutto e caddi tre o quattro volte ancora prima dell’arrivo».

Anche Claudio Terruzzi, pilota Honda e poi Cagiva insieme a Edi, ringrazia il paraschiena «e la buona sorte, e forse anche il marsupio che quel giorno avevo girato dietro e mi fece da cuscino. Il telaietto posteriore della Cagiva mi colpì fortissimo, cinque millimetri più in là e non avrei più camminato. Dopo diciassette lunghissime tappe, ci si può ribaltare a soli dieci chilometri da Dakar?». Si può.

Era il 1989, Claudio amava esibirsi, era l’animatore del bivacco, non fosse stato pilota sarebbe stato un gran cabarettista: così, visti due operatori tv a bordo pista, esagerò. Ma è serio quando racconta come nacque la sua carriera di “africano”. «Mi ero iscritto alla Djerba 500 in Tunisia con una KTM, era il 1985 e andai a Molvena per farmi fare la tuta» ricorda Claudio. «Lino Dainese volle che provassi un nuovo materiale incredibile, traspirante e completamente impermeabile. Gli domandai: cosa me ne faccio in nordafrica, dove non piove mai? Ho qui la foto dopo tre giorni di acqua a catinelle, infangato da cima a fondo ma asciutto. Col Goretex».

Franco Picco invece ha ancora in mente il gelo dei trasferimenti in Francia. Perché il rally si correva nel deserto, ma quei 900 chilometri sottozero, da Parigi a Marsiglia per l’imbarco, lasciavano il segno. «Si moriva di freddo» racconta il veneto «ma Dainese ci aveva preparato tutto il materiale utile per sopravvivere: coprituta, pantaloni, giacca, guanti e persino le solette degli stivali. Con le resistenze termiche, si viaggiava al caldo anche nelle prime tappe in Algeria, dove in certi anni trovammo pure la neve…».

È soprattutto grazie a Franco che la Parigi-Dakar divenne famosa in Italia fin dal 1985: il pilota Yamaha dominò a lungo e alla fine colse il terzo posto.

Un altro veterano del Rally è Alessandro De Petri detto Ciro; Honda, Cagiva (un terzo posto il suo miglior risultato) e Yamaha, ha subìto tanti incidenti anche gravi, ma ha vinto numerose speciali e se non ha mai primeggiato alla Dakar, ha però collezionato cinque successi assoluti tra il Faraoni e il Tunisia.

«Le nostre» racconta l’ex pilota bergamasco «erano giacche personalizzate e fatte a mano una per una, secondo le diverse esigenze. Io per esempio volevo tenere una piccola bussola nella manica sinistra perché avevo il terrore di perdermi, chiedevo cerniere dappertutto e tante tasche: per la borraccia supplementare (cinque litri erano obbligatori), per le barrette, il cibo, una cinghia arrotolata per eventuali traini della moto. La cartina, che non fa spessore, l’avevo in una tasca sulla schiena. Il numero di gara andava cucito davanti, sulla pancia, e allora chiesi per la giacca una chiusura speciale asimmetrica. Tutti i francesi copiarono le nostre soluzioni».

Si correvano rischi enormi, alla Dakar: c’era da perdersi, c’era da cadere rovinosamente. Come quando Orioli centrò ad alta velocità un cavallo, sbucato sulla pista nell’ultima speciale del 1989

E c’erano ancora le dune e tanta sabbia nell’ultima impresa firmata da Edi Orioli, nel Duemila. Nel suo Tenerè Raid, impresa solitaria non agonistica sulla Honda Transalp, l’ex-dakariano usò una speciale sottotuta con 54 sensori, monitorato dalle ginocchia in su. Nella gobba un palmare rilevava tutti i suoi dati per molte ore di seguito: accelerazioni, temperature interne ed esterne, umidità, battito cardiaco. «Era per la ricerca Dainese» racconta Edi «una mappatura preziosa per lo sviluppo di tante soluzioni di sicurezza e dell’air bag. La carovana della Parigi-Dakar era ormai lontana: per la prima volta completamente solo, nel Tenerè mi sentivo un marziano nel deserto».

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