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42,195: è il numero scolpito nella roccia che per gli emuli di Filippide rappresenta una meravigliosa ossessione. Quarantadue chilometri, con la ciliegina dei 195 metri finali, che possono diventare un incubo, o essere la base per una ulteriore rinascita.
Forse pensava a questo Emiliano Malagoli, quando nella sua testa ha preso forma l’ennesima sfida: essere il primo italiano con disabilità alle gambe a correre e possibilmente a portare a termine la maratona di New York, che al fascino della prova ai limiti dell’umana fatica unisce uno scenario metropolitano davvero senza eguali.
Così, dopo aver dato forma negli ultimi anni al progetto Di.Di., cresciuto nei numeri e soprattutto nella qualità, per dimostrare che non può essere un incidente, per quanto grave e drammatico, a spegnere il fuoco sacro della passione per le gare in moto, da qualche mese Emiliano divide l’impegno in pista (ricordiamo che è pilota ufficiale BMW con una S 1000 RR opportunamente modificata) con i serrati allenamenti per prepararsi al grande appuntamento di domenica 3 novembre all’ombra della Statua della Libertà.
Abbiamo avuto occasione di scambiare con lui qualche impressione, durante una pausa di relax prima di tornare in palestra.
Emiliano, intanto: perché la maratona?
«L’ho intesa come metafora ideale per descrivere la mia vita: i momenti difficili, le prove da superare, i traguardi che sembrano impossibili, le volte in cui in cui pensi di mollare tutto. Ho deciso di affrontare questa impresa per le persone che come me almeno una volta hanno detto “non posso farcela”. Provare a dimostrare invece che tutto è possibile, superando le convinzioni che ci limitano».
Che valore assume una competizione accanto ad atleti professionisti?
«La gara a New York non sarà una sfida semplice, lo è già per un normodotato, figuriamoci per chi corre senza la gamba destra e la sinistra bloccata da ferri e viti in titanio! Sto affrontando allenamenti durissimi per prepararmi, sia fisicamente che mentalmente, a questa impresa, ma una difficoltà ulteriore è data dalla protesi: non ne esiste una specifica per la maratona».
Come tappa di avvicinamento alla Maratona hai corso la “mezza“, la Roma-Ostia: un test significativo?
«E’ stata la prima verifica ufficiale sul campo, un vero test: i 21 km rappresentano infatti un importante step per verificare, oltre alla preparazione atletica, il dettaglio tecnico più importante, relativo alla resistenza ed alla gestione della protesi alla gamba».
E com’è andata?
«Direi bene dal punto di vista fisico: ho impiegato 2 ore e 37 minuti per terminare la gara, comprese due soste per asciugare il moncone, con circa un mese e mezzo di allenamento e senza aver mai tentato prima la distanza, ma con due soli test di circa tredici km ciascuno. Devo però ammettere che gli ultimi cinque km sono stati davvero molto difficili, proprio a causa dei dolori al moncone dovuti alla protesi. Dobbiamo modificare qualcosa e in questi giorni sarò dallo specialista Ottobock a Bologna e all'Ortopedia Michelotti di Lucca, le aziende che mi stanno supportando in questa avventura, per risolvere i problemi all'invaso, che è troppo duro. Ho bisogno di far diventare la mia protesi quasi come una pantofola per ammortizzare al meglio le migliaia d'impatti al suolo che dovrò affrontare durante i 42 km a New York».
Come ti stai preparando alla maratona?
«Gli allenamenti si svolgono con cadenza quasi giornaliera: ho la fortuna di avere un'allenatore molto preparato, l’ex professionista Domenico Ricatti e sono ospite della struttura dell'Aeronautica Militare di Vigna di Valle, vicino al lago di Bracciano a nord di Roma, un vero fiore all'occhiello a livello tecnico!».
Intorno allo sport paralimpico c’è un crescente interesse, soprattutto da parte del pubblico: avverti anche tu una percezione diversa, un atteggiamento meno pietistico e più consapevole del vostro valore?
«E’ senz’altro così, e mi piace pensare di aver potuto contribuire con la mia attività a questo cambio culturale: siamo circondati da belle figure, che sono d’esempio per tutti malgrado i loro problemi. Penso ovviamente ad Alex Zanardi, ma anche a Bebe Vio, che hanno frantumato il muro di indifferenza che ci circondava. La lezione più importante è che per nessuno esistono limiti: fin dal primo giorno dopo aver deciso di compiere questa “impresa“, sono stato cosciente che avrei incontrato non poche difficoltà; ma sono convinto che con il giusto allenamento ed il supporto tecnico delle aziende sopra citate sarà possibile togliersi questa grande soddisfazione. Al momento non ho l’obiettivo di fare un tempo record: la mia vittoria sarà già soltanto superare la linea del traguardo… ma conoscendo il mio corpo, una proiezione sul tempo finale ho iniziato a farmela. Al momento però non voglio sbilanciarmi e creare troppe aspettative: un passo alla volta, ci vedremo a New York!».