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Nella storia del motociclismo non sono certo mancati i modelli nei quali si riponevano grandi speranze e che invece si sono rivelati autentici fallimenti dal punto di vista commerciale, al punto da rimanere in listino per poco tempo soltanto.
Alcuni hanno dato seri problemi meccanici ai quali magari si è posto rimedio nel corso della produzione, ma comunque tardi per raddrizzare la barca. Il primo impatto catastrofico aveva ormai segnato la sorte della moto, che nessuno comprava più. Altri magari andavano anche bene ma sono stati presentati in un momento sbagliato o non han potuto affermarsi perché non erano ciò che gli appassionati si aspettavano da quella casa. O perché gli schemi costruttivi adottati erano troppo in anticipo (o troppo in ritardo!) rispetto ai tempi.
A questo si aggiungeva talvolta il fattore estetico: certi modelli erano davvero brutti…
Talvolta non è stata la moto ma il motore a risultare un fallimento.
Nei primi anni Settanta la regolarità stava vivendo un autentico boom e hanno fatto la loro comparsa anche nuovi marchi specializzati in questo settore. Un grande protagonista era il motore Sachs sei marce, nelle versioni di 125 e 175 cm3, che veniva adottato con eccellenti risultati da diversi costruttori.
Poi la casa produttrice ha pensato di realizzare il suo successore, più potente (almeno sulla carta) e dotato di una marcia in più. Frutto di un progetto completamente nuovo, attorno al 1976 ha fatto così la sua comparsa il nuovo Sachs sette marce.
È stata una catastrofe. Il vecchio sei marce andava molto meglio, non dava mai problemi ed era sempre generoso e ben gestibile come erogazione, risultando ideale per l’impiego fuoristradistico. Il risultato, anche per via della comparsa dei validissimi motori Hiro e (specialmente) Rotax, è stato che di lì a poco il marchio Sachs è scomparso dall’Olimpo dalla scena motociclistica, e ha concentrato la sua attività in settori diversi da quello delle due ruote da regolarità.
Nella seconda metà degli anni Sessanta per il settore moto, dopo una lunga crisi, stava iniziando una nuova età dell’oro e molte attenzioni si stavano puntando sulle grosse cilindrate. Tra le case italiane già la Guzzi, la Laverda e la MV Agusta avevano presentato le loro 750.
Anche la Benelli pensò di realizzare la sua motopesante, ma partì con il piede sbagliato, optando per una 650, quando i costruttori si stavano orientando da tempo verso una cilindrata di 750 cm3. Il modello in questione era il Tornado, presentato alla fine del 1967 ma entrato in produzione solo tre anni più tardi. Il motore a due cilindri paralleli dalle misure decisamente radicali (84 mm di alesaggio e 58 di corsa) aveva un albero a gomiti con manovelle a 360° e la distribuzione ad aste e bilancieri.
Ormai però era chiaro che il futuro, per i motori con questa architettura, prevedeva uno o due alberi a camme in testa. Complessivamente la moto non era comunque male, in quanto a robustezza e affidabilità, anche se aveva il grosso problema di vibrare molto.
La potenza dichiarata era di 50 CV a 7400 giri/min. Il Tornado è rimasto in produzione per circa cinque anni, periodo nel quale ne sono stati costruiti solo 3000 esemplari circa.
La Yamaha è entrata nel settore di quelle che all’epoca venivano considerate grosse cilindrate con una bella bicilindrica parallela di 650 cm3, presentata al salone di Tokyo nel 1969. Si trattava della XS 650, prima quattro tempi costruita dalla casa di Iwata. Negli USA e in altre nazioni questa ottima moto ottenne un buon successo commerciale, ma era chiaro che occorreva qualcosa di più.
Venne così progettata ex-novo una 750 nella quale venne mantenuto lo schema a due cilindri paralleli con distribuzione monoalbero della 650.
Denominata TX 750, la nuova moto entrò in produzione alla fine del 1972 e fu un fiasco colossale. Teoricamente il motore era al passo coi tempi, anzi, addirittura per quanto riguarda l’equilibratura mostrava la strada, con i suoi due alberi ausiliari (sistema Omni-Phase). L’alesaggio era di 80 mm e la corsa di 74 e la potenza erogata era di 63 CV a 7500 giri/min. L’albero a gomiti poggiava su quattro supporti e aveva le manovelle a 360°.
I problemi di affidabilità che hanno afflitto questo modello sono stati non solo numerosi ma anche di notevole portata. Principalmente erano legati a surriscaldamento (il condotto di collegamento tra i due scarichi non era staccato ed esterno alla testa ma integrato) e alla lubrificazione. Alberi a camme che si usuravano o grippavano erano all’ordine del giorno, e anche le bronzine...
Pare che fondamentalmente il problema fosse causato dalla intensa formazione di schiuma in seno all’olio, per via dello sbattimento dovuto ai due equilibratori dinamici (astutamente piazzati nella parte inferiore del basamento).
Quello dei bicilindrici paralleli degli anni Settanta è un capitolo dolente, nella storia della Ducati. Si trattava di due modelli (di 500 e di 350 cm3) anomali in quanto non progettati dall’ing. Taglioni, al quale sono dovute tutte le realizzazioni dalla Casa bolognese dal 1955 alla seconda metà degli anni Ottanta. Semplicemente, “Mr. T” non condivideva la scelta della direzione dell’azienda e non aveva voluto avere nulla a che fare con il progetto.
I nuovi modelli sono stati presentati sul finire del 1975. Le misure caratteristiche della versione di maggiore cilindrata, che erogava 40 CV a 8000 giri/min, erano 78 x 52 mm e passavano a 72 x 43 in quella di 350 cm3. La distribuzione monoalbero era comandata da una catena collocata centralmente. L’albero a gomiti forgiato in acciaio da bonifica lavorava su bronzine e poggiava su due supporti di banco. In origine era previsto che le manovelle fossero a 360° e che venissero impiegati due alberi ausiliari di equilibratura. Le cospicue dimensioni del basamento si spiegano proprio con l’esigenza di alloggiare tali dispositivi. Poi si è optato per manovelle a 180° e l’idea di adottare alberi di equilibratura è stata scartata.
Per diverso tempo la moto, decisamente brutta, è stata perseguitata da problemi meccanici di vario genere. L’affidabilità era scadente e d’altro canto anche le prestazioni non erano granché.
Si è cercato di rimediare (ma c’è voluto tempo) con una serie di modifiche. Sono state anche realizzate una versione con distribuzione desmodromica ed estetica studiata da Tartarini e la GTV, versione migliorata della GTL. Ormai però il guaio era fatto e gli esemplari prodotti sono stati davvero pochi (poco più di 6000 in un arco di circa sei anni).
Per fortuna della Ducati alla fine del 1977 è stata presentata la Pantah, che è entrata in produzione un paio di anni dopo…