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Franco Picco è uno di quelli che ha scritto la storia della Dakar anni d’oro. Uno la cui immagine è legata indissolubilmente alle Yamaha Ténéré con livrea Chesterfield che facevano sognare gli appassionati anni 80, e che ha contribuito a creare l’alone di leggenda che circonda quella gara diventata il punto d’arrivo, il corrispondente della maratona di New York o dell’Iron Man di Hakona per ogni fuoristradista.
Abbiamo approfittato della sua presenza al Motor Bike Expo di Verona per scambiare due chiacchiere con lui, parlare della Dakar appena conclusa – forse una delle edizioni più tormentata da polemiche – e dei suoi progetti per il futuro. Perché alla soglia dei sessanta, Picco si sente ancora un ragazzino.
Iniziamo parlando della Dakar, argomento su cui Franco tira le somme dall’alto della sua esperienza
«L’edizione 2015 ha confermato la Dakar come una gara strana, difficile – dirò di più, sulla base della mia esperienza posso assicurarvi che la Dakar è una gara che se uno non sa come interpretare diventa difficilissima. E’ per questo che credo che tutti quelli che riescono a portarla a termine fanno esperienza e pensano "il prossimo anno saprò come fare" – se uno capisce la gara dopo diventa tutto più facile. Si tratta però di restare lucidi, e purtroppo non sempre è possibile: in gara è facile farsi prendere dalla foga e commettere errori, anche perché le condizioni climatiche sono spesso estreme».
L’incognita di quest’anno era il Salar, che avrebbe dovuto essere una passerella, quasi una scusa per passare in Bolivia. Dove ci aspettava addirittura il Presidente. Diciamolo chiaramente: un escamotage per raggranellare denaro da parte degli organizzatori.
Quest’anno, tra l’altro, abbiamo assistito ad una Dakar ancora più impegnativa del solito
«Beh, la differenza vera, l’incognita di quest’anno era il Salar – che avrebbe dovuto essere una passerella, quasi una scusa per passare in Bolivia, dove ci aspettava addirittura il Presidente. Diciamolo chiaramente: un escamotage per raggranellare denaro da parte degli organizzatori. Esigenza comprensibile, per carità, ma da qui ad andare a 3500 metri di altitudine solo per salutare il Presidente ben sapendo che non tutti ci sarebbero arrivati – perché le condizioni logistiche rendevano praticamente impossibile che tutte le assistenze riuscissero a giungere a destinazione in tempo – ce ne passa. Lì poi ci si è messa la pioggia, che ha trasformato la superficie in un pastone salato capace di creare ogni sorta di problemi: croste sui radiatori e sulle griglie di protezione (nate due anni fa per prevenire gli incendi dovuti alle sterpaglie che si infilavano a contatto con gli scarichi) che hanno impedito il raffreddamento dei motori, ma anche impianti elettrici andati completamente in tilt. Paradossalmente, chi non aveva fretta e, non puntava alla prestazione se l’è cavata, chi voleva andare forte a tutti i costi l’ha pagata cara».
Però a qualcuno è andata bene
«Certo. Il problema l’ha avuto anche Coma, ma grazie al sacrificio della sua squadra ha potuto proseguire e ha vinto la gara. Anche gli altri ci hanno provato – Barreda si è fatto trainare, ma aveva già avuto tanta sfortuna, aveva rotto il manubrio e quant’altro. Anche Botturi, che non conosceva la moto, non conosceva certe problematiche, ha cotto il motore – ecco perché dico che c’erano questioni climatiche strane. Però quando si fa la Dakar bisogna aspettarsi di tutto, lavorare più di esperienza che di manico poi, certo, la differenza la fanno le grandi organizzazioni, come HRC o KTM ufficiali».
Una gara in cui l’assistenza conta così tanto è quindi preclusa ai privati?
«Si e no, ma è molto importante. Vi faccio un esempio: Botturi. Era tutto felice di avere una moto ufficiale, pensava di aver risolto tutti i suoi problemi e non si è preoccupato della struttura, che di fatto praticamente non aveva. Io gli avevo anche proposto di venire con me, ne avremmo tratto vantaggio entrambi, lui però ha preferito uno sponsor ad un tecnico. Meglio così perché forse, in caso contrario, sarei ancora là a dovermi giustificare».
Ma parliamo del futuro. Nel 2016 cade una ricorrenza, no?
«Eh, ad ottobre compio 60 anni, e fanno esattamente trent’anni dalla mia prima Dakar – sono due numeri importanti, e quando li ho messi insieme hanno iniziato a fare un po’ di rumore, per così dire. Ho iniziato a pensare alla possibilità di organizzarmi per una partecipazione, anche se in questo momento con Yamaha c’è qualche difficoltà – ma mi dispiacerebbe organizzarmi diversamente. Ho pensato anche ai quad, e a dire la verità anche alle moto elettriche, però dopo quello che è successo nel lago salato… Insomma, non ho ancora preso una decisione, ma sto lavorando».
Visto che hai provato l’elettrico, cosa ne pensi?
«Gli unici veri problemi al momento sono l’autonomia e problemi come quelli del Salar. Un peccato, perché l’elettrico ha tantissimi vantaggi, uno dei quali il sapere sempre con precisione quanta potenza hai a disposizione e quanta ne consumi – puoi quasi programmare tutto prima di partire. Il problema, però, è che per non dover andare via a dieci all’ora il volume delle batterie – che ha un rapporto di circa 1:10 con la benzina – per affrontare una tappa della Dakar arriva a 250/300 litri. Quindi devono arrivare batterie più performanti e con costi più abbordabili prima che possa essere un’ipotesi realmente praticabile. E poi c’è il problema del rifornimento: anche se non sei in speciale ma in un trasferimento l’ipotesi di perdere una o due ore per ricaricare le batterie è improponibile. Però per uno come me, in veste di tecnico, da meccanico insomma, potrebbe essere stimolante da sviluppare. Se qualcuno volesse mettersi in gioco a me piacerebbe studiarci sopra, lavorare».
Quindi la vuoi fare davvero, questa Dakar 2016? E non con un’auto?
«Sicuramente non partirei per dare fastidio a Coma o a Barreda, ma farla anche solo per dimostrare che a sessant’anni si può sarebbe uno stimolo. E credo che con la mia esperienza ce la potrei fare. Ma comunque su una moto o un quad, non un’auto – diventa troppo costoso. Un conto è gente come Despres o Peterhansel, che arriva all’auto subito dopo le vittorie in moto e quindi approda a team ufficiali con l’appoggio di uno sponsor. E poi con le auto ho già provato, e il livello di divertimento è molto inferiore. Per un motociclista, la libertà che si gode con la moto è inarrivabile».
Un’ultima domanda: come ti stai preparando a questa nuova avventura?
«Beh, intanto la preparazione è iniziata l’anno scorso con l’operazione ad entrambe le anche. Ho parlato con il dottor Costa proprio qui a Verona, e mi ha confortato con la sua opinione: se tengo la testa sulle spalle, nonostante gli anni e le operazioni ce la posso fare. Insomma, tecnicamente sono a posto da un punto di vista fisico, ora si tratta di allenarsi. C’è un anno di tempo, parteciperò ad altre gare facendo i miei viaggi – in Egitto o dove capiterà. Logicamente bisogna arrivare preparati ad una gara del genere; mentalmente mi sento di dire di essere già a posto, restano il fisico e la logistica».
La logistica rimane quindi importantissima
«Assolutamente sì, mi dispiace sembrare un disco rotto ma voglio tornare sull’argomento: andare al risparmio su questi aspetti è come voler competere con i prodotti migliori sul mercato con le cineserie da pochi centesimi. Sono trent’anni che vivo la Dakar e ne ho viste di tutte; anche gente che adesso parla… non c’era, oggi c’è ma sono sicuro che fra poco non ci sarà più. Se io sono ancora qui è perché conosco perfettamente i tanti lati tecnici e logistici di questa gara e so valutare correttamente l’impegno richiesto da una gara – faccio un esempio, tutti hanno detto che questa Dakar è stata durissima, con un 50% di ritiri. Sono partite quattro donne, due in moto e due in quad, e sono arrivate tutte e quattro. O non ci sono più le donne di una volta, o… non ci sono più gli uomini di una volta! Poi capisco che anche da un punto di vista giornalistico dipingere una gara come durissima abbia il suo appeal, ma spesso la realtà è molto più prosaica: serve organizzazione».
Maurizio Vettor