Freni e ruote differenti: alla ricerca della novità che non paga

Certe soluzioni tecniche nel campo dei freni e delle ruote, di Honda e non solo, funzionavano. Ma sono uscite di scena perché c’era di meglio
30 maggio 2021

Nella storia del motorismo tante volte sono state tentate strade differenti da quelle che dominavano la scena e in qualche caso le nuove proposte hanno anche avuto successo.

Quando poi entrava in gioco qualche grande casa, ci si poteva aspettare di tutto. Magari voleva fare solo qualcosa di diverso, per distinguersi o per fare foggio di una tecnologia particolarmente avanzata (per la serie “guardate cosa siamo in grado di fare”); altre volte però avrebbe fatto meglio ad allinearsi adottando la soluzione che impiegavano tutti gli altri.

Nel corso degli anni Settanta i dischi hanno definitivamente soppiantato i tamburi. Pare che quelli in ghisa consentissero di ottenere prestazioni leggermente superiori (almeno con i materiali d’attrito dell’epoca) rispetto a quelli in acciaio; avevano però il difetto di arrugginirsi facilmente. Li impiegavano le moto italiane, mentre i costruttori giapponesi per i modelli di serie preferivano utilizzare dischi in acciaio inox.

All’inizio degli anni Ottanta su alcuni modelli la Honda ha proposto una soluzione che consentiva di impiegare dischi in ghisa, non solo flottanti ma addirittura autoventilanti, senza problemi di ruggine a vista

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All’inizio degli anni Ottanta su alcuni modelli la Honda ha proposto una soluzione che consentiva di impiegare dischi in ghisa, non solo flottanti ma addirittura autoventilanti, senza problemi di estetica (leggi formazione di ruggine).
Si trattava dei freni Inboard, che la casa giapponese ha adottato su diverse medie cilindrate della sua gamma dell’epoca (come la VF 400 e la CBX 550). In un freno di questo tipo il disco (ma talvolta se ne impiegava uno per lato) era alloggiato all’interno del mozzo, al quale veniva vincolato per mezzo di appendici praticate sulla circonferenza esterna. La pinza era perciò “rovesciata” rispetto alla posizione usuale. Ad assicurare una adeguata ventilazione provvedeva una presa dinamica. L’aspetto esteriore era quindi assai simile a quello dei grossi freni a tamburo da competizione di fine anni Sessanta.

Questi freni funzionavano bene (ed erano particolarmente apprezzati nella guida sul bagnato) ma non erano certamente privi di punti deboli. Rispetto a quelli convenzionali pesavano di più e avevano una superiore complessità costruttiva, data dal maggior numero di parti in gioco, con le relative lavorazioni; ciò poteva ovviamente avere una influenza negativa sui costi di produzione. Inoltre la sostituzione delle pastiglie era laboriosa a dir poco.
Non sono rimasti sulla scena a lungo.

La Buell ha utilizzato un freno anteriore a disco “perimetrale”, ben visibile in questo esemplare di pochi anni fa. Non andava male, ma c’è il sospetto che fosse una soluzione impiegata per fare qualcosa di diverso
La Buell ha utilizzato un freno anteriore a disco “perimetrale”, ben visibile in questo esemplare di pochi anni fa. Non andava male, ma c’è il sospetto che fosse una soluzione impiegata per fare qualcosa di diverso

Restando nel campo dei freni, non si possono non ricordare quelli perimetrali (o circonferenziali che dir si voglia) impiegati dalla sfortunata Buell. Non è che funzionassero male, ma rispetto alla soluzione convenzionale, adottata da tutti gli altri, non presentavano in pratica alcun vantaggio.
Anzi, prestavano il fianco a diverse critiche. La massa mobile era piazzata nel posto meno favorevole per quanto riguarda l’inerzia rotazionale, ossia in prossimità del cerchio della ruota. Inoltre, un disco di dimensioni esuberanti con la pinza vincolata a un solo stelo della forcella non è proprio il massimo…

La soluzione era però vantaggiosa per quanto riguarda la potenza frenante, dato il grande diametro utile della fascia sulla quale agivano le pastiglie. Inoltre la forza veniva trasmessa direttamente al cerchio e quindi al pneumatico, senza passare per il mozzo ruota e per le razze. D’altro canto per lasciare libera la fascia frenante nella sua dilatazione termica diametrale occorreva un sistema di flottanza non proprio semplice da realizzare.
Infine la ruota doveva essere specificamente realizzata per questo tipo di freno e l’estetica non era certo esaltante. E infatti, unitamente alle

caratteristiche di guida, quest’ultima voce ha avuto il suo peso nell’impedire l’accettazione di questo tipo di freno da parte del grande pubblico e dei grandi costruttori (uno dei quali aveva provato una soluzione del genere nei primi anni Ottanta ma l’aveva rapidamente scartata). E poi, se una soluzione non la vedi impiegata sulle moto da Gran Premio…

Un altro freno che non è riuscito a imporsi è stato l’idroconico della Campagnolo, che pure aveva ottenuto importanti successi alla metà degli anni Settanta.
Lo utilizzava (in molti Gran Premi, se non sempre) l’Harley Davidson sulle sue bicilindriche ufficiali di 250 e 350 cm3, costruite a Schiranna, pare su richiesta specifica di Walter Villa, che con queste moto ha conquistato quattro titoli mondiali. Il principio di funzionamento era logico e razionale e le prestazioni decisamente valide. I freni a disco però erano meglio…

La Honda CB 1100 R con i suoi 115 cavalli è stata una delle moto più performanti dei primi anni Ottanta. Come si può notare in questa immagine, era dotata di due ruote composite ComStar
La Honda CB 1100 R con i suoi 115 cavalli è stata una delle moto più performanti dei primi anni Ottanta. Come si può notare in questa immagine, era dotata di due ruote composite ComStar

In passato la Honda ha impiegato per diverso tempo una sua particolare versione delle ruote a razze.
Si trattava delle ComStar, utilizzate nel periodo che va dalla seconda metà degli anni Settanta all’inizio del decennio successivo tutti i modelli stradali. Basta pensare alle CB 750 e 900 F quadricilindriche bialbero e alla VF 750 F, per fare un paio di esempi.

Le ruote ComStar sono state realizzate in varie versioni e hanno trovato impiego anche su moto da competizione come la NS e la NSR 500, vincitrici del mondiale rispettivamente nel 1983 e nel 1985. La struttura di queste ruote prevedeva che il cerchio e il mozzo venissero uniti da una serie di razze in lamiera stampata, ciascuna delle quali era in genere realizzata in due parti simmetriche. Il materiale poteva essere l’acciaio o l’alluminio. Nei modelli da corsa venivano impiegati elementi in composito a base di fibra di carbonio, opportunamente conformati. Le diverse parti di queste ruote composite venivano in genere unite per chiodatura o mediante viti ad alta resistenza.

Le ComStar hanno sempre svolto la loro funzione in maniera impeccabile. Le ruote a razze tradizionali, realizzate in un sol pezzo, alla fine dei conti si sono rivelate però preferibili; erano infatti più versatili in quanto a disegno, più semplici come struttura e infine (cosa non trascurabile) più economiche da produrre.

Le ruote composite non sono state prodotte solo dalla Honda. Hanno avuto una buona diffusione, in particolare nel mondo delle special e presso i preparatori, le inglesi Astralite. Ne ha realizzate dello stesso tipo, con due parti simmetriche unite facendo ampio ricorso agli adesivi strutturali, la Bimota nella prima metà degli anni Ottanta.
E non si possono dimenticare le Akront-Marvic con cerchio in alluminio estruso unito mediante viti al gruppo mozzo-razze ottenuto per fusione. Le hanno impiegate sportive purosangue come le Ducati 750 Montjuich e Santamonica 750 a due valvole costruite in serie limitate nel 1986 - 1987.