Frizione: meglio a secco o in bagno d’olio?

Vediamo struttura e funzionamento della frizione, le differenze con vantaggi e svantaggi delle soluzioni a secco e in bagno d’olio
25 aprile 2019

A cosa serve la frizione lo sanno tutti. Consente di collegare o meno il motore al cambio, permettendo o impedendo la trasmissione del moto. Come è fatta e come funziona però forse sono in meno a saperlo. E poi, si trova davvero sempre all’entrata del cambio?

Schematicamente una tipica frizione motociclistica è costituita da un elemento conduttore (la campana, solidale con la corona della trasmissione primaria) e da uno condotto, ossia il mozzo (o tamburo interno), obbligato a ruotare con l’albero primario del cambio, sul quale è montato con un accoppiamento scanalato. Tra questi due elementi, di norma realizzati in lega di alluminio, sono piazzati dei dischi che si alternano: quelli guarniti sono dotati di appendici esterne che li rendono solidali nella rotazione con la campana (munita di appositi intagli) mentre quelli interamente metallici sono costretti a girare assieme al mozzo, sul quale sono installati, da una serie di scanalature interne.

Quando la frizione è innestata una serie di molle obbliga il piatto spingidisco a premere contro i dischi in modo da renderli tutti solidali tra loro, cosa che consente di trasmettere il moto. I dischi costituiscono cioè un “pacco” unico e di conseguenza il mozzo risulta collegato rigidamente alla campana.

Se, al contrario, la frizione è disinnestata, i dischi non sono premuti uno contro l’altro e quindi non sono in grado di trasmettere alcuna coppia. A moto ferma con il motore acceso - quindi con il cambio in folle - quelli conduttori continuano a girare insieme alla campana (vincolata come detto alla corona della trasmissione primaria) mentre quelli condotti non si muovono affatto; infatti l’albero primario del cambio e il mozzo della frizione, collegati alla ruota motrice, non girano. Il pilota disinnesta la frizione tirando la leva; grazie a un apposito meccanismo ciò determina il sollevamento del piatto spingidisco, cosa che accade vincendo la resistenza opposta dalle molle.

All’atto della partenza il pilota lascia gradualmente tornare in posizione di riposo la leva della frizione, modulandone il movimento come opportuno. I dischi vengono premuti uno contro l’altro con una forza via via crescente; si ha cioè uno slittamento, che consente un innesto dolce e progressivo.

Vista esplosa di una tipica frizione motociclistica a dischi multipli. 1= campana, 2= mozzo, 3= piatto spingidisco. In questo caso gli intagli praticati sui dischi conduttori non sono radiali ma inclinati per agevolare la fuoriuscita dell’olio
Vista esplosa di una tipica frizione motociclistica a dischi multipli. 1= campana, 2= mozzo, 3= piatto spingidisco. In questo caso gli intagli praticati sui dischi conduttori non sono radiali ma inclinati per agevolare la fuoriuscita dell’olio
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Quello descritto è il classico schema adottato nel nostro settore, con una frizione a dischi multipli che lavora in bagno d’olio ed è posta nello stesso vano ove si trova la trasmissione primaria.
In qualche caso però (tipicamente si tratta delle moto da competizione) le frizioni di questo tipo vengono fatte lavorare a secco e in tal caso sono collocate in genere all’aperto. Questa soluzione garantisce un ottimo raffreddamento e assicura una eccellente accessibilità; inoltre presenta vantaggi in termini di ingombro. A parità di coppia che può essere trasmessa la frizione può infatti avere dimensioni notevolmente minori (e viceversa, a parità di dimensioni la frizione può trasmettere una coppia più elevata). D’altro canto, la rumorosità è considerevole e risulta chiaramente avvertibile quando il veicolo è fermo con il motore acceso.

Tra la corona della trasmissione primaria e la campana della frizione in genere nei modelli di serie viene piazzato un parastrappi. Le due parti non sono cioè in un sol pezzo né sono collegate in maniera perfettamente rigida; tra di esse vengono collocate delle molle o degli elementi in gomma che assicurano un collegamento leggermente elastico, tale cioè da assicurare un adeguato smorzamento delle irregolarità nella rotazione (come quelle causate ad esempio da un fondo sconnesso, che determina una serie di brusche variazioni della coppia resistente). Non mancano a ogni modo esempi di motori nei quali non si impiega alcun parastrappi e la campana è realizzata in un unico pezzo con la corona.

Le molle di pressione, che agiscono sul piatto spingidisco, sono del consueto tipo a elica e lavorano a compressione. In passato non di rado sono state però impiegate molle che lavoravano a trazione.

Alcune moto hanno trasmissioni di scuola automobilistica, con l’asse di rotazione dell’albero a gomiti longitudinale (e non trasversale), il cambio piazzato subito dietro il basamento del motore e la trasmissione finale ad albero. Si tratta tipicamente delle Guzzi a V e di tutte le BMW bicilindriche boxer, fino alla comparsa della nuova generazione di motori bialbero con raffreddamento aria-acqua e condotti di aspirazione e di scarico verticali.
In questi casi la frizione mono o bidisco è posta direttamente alla estremità posteriore dell’albero a gomiti e lavora a secco. Risulta quindi alloggiata in un vano tra il basamento e la scatola del cambio, proprio come nelle automobili. Al posto di una serie di molle di pressione viene di norma impiegata un’unica molla a diaframma, di rilevanti dimensioni. In queste moto l’albero a gomiti e quello di entrata del cambio sono coassiali e non vi è una trasmissione primaria. Nel disco della frizione, guarnito su entrambi i lati con materiale d’attrito, è incorporato un parastrappi, realizzato con una serie di molle.

In alcuni motori del passato la frizione non era a valle ma a monte della trasmissione primaria, in quanto piazzata a una estremità dell’albero a gomiti. L’immagine mostra il manovellismo e gli organi della trasmissione di un bicilindrico Adler degli anni Cinquanta
In alcuni motori del passato la frizione non era a valle ma a monte della trasmissione primaria, in quanto piazzata a una estremità dell’albero a gomiti. L’immagine mostra il manovellismo e gli organi della trasmissione di un bicilindrico Adler degli anni Cinquanta

Nelle frizioni multidisco dei moderni motori motociclistici di schema classico in genere nella parte centrale della campana vengono inseriti uno o due cuscinetti a rotolamento. Grazie ad essi quando la frizione è disinnestata la campana può ruotare liberamente sull’albero primario del cambio. In passato però si impiegavano assai spesso bussole in bronzo.

I dischi conduttori, in presa con la campana per mezzo di una serie di appendici praticate sulla loro circonferenza esterna, sono guarniti con materiale d’attrito appositamente sviluppato per questo tipo di impiego e sulla superficie di lavoro presentano una serie di solchi radiali (o, in qualche caso, inclinati). Solo di rado per questi dischi si è fatto ricorso a leghe a base di rame, senza utilizzare alcun materiale d’attrito riportato. I dischi condotti sono invece invariabilmente in acciaio.

In alcune frizioni il piatto spingidisco non è collocato all’esterno del “pacco” dei dischi ma è in posizione rovesciata, ovvero in fondo alla campana. In tal caso all’esterno vi è un piattello sul quale agisce, premendolo, il meccanismo di disinnesto (comandato meccanicamente o idraulicamente a seconda dei casi).

La frizione non è sempre stata piazzata all’entrata del cambio. In passato (ma anche pochi anni fa in un monocilindrico BMW) ci sono stati alcuni casi nei quali essa era montata direttamente alla estremità dell’albero a gomiti. Ricordiamo, anche perché prodotte in grandi numeri, le Rumi, le Adler e le prime Yamaha bicilindriche. Assai più rari sono stati i casi nei quali la frizione era montata alla uscita del cambio (Gilera 150 degli anni Cinquanta, Bianchi Bernina).

A partire dagli anni Ottanta hanno iniziato a fare la loro comparsa le frizioni con incorporato un dispositivo antisaltellamento in rilascio, oggi largamente utilizzate, e non sono mancati gli esempi di soluzioni in grado di assicurare una certa servoassistenza. Forse però è il caso di parlarne in un’altra occasione.

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