I Racconti di Moto.it: "Alberto fa un giro"

I Racconti di Moto.it: "Alberto fa un giro"
Nell’angolo polveroso della Squadra Mobile che il Procuratore Capo Gianbattista Dott. Litterio chiamava ufficio, l’ispettore Lombardo batteva una relazione di servizio. Lo faceva con poca voglia e ancor meno attenzione...
23 maggio 2014

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Nell’angolo polveroso della Squadra Mobile che il Procuratore Capo Gianbattista Dott. Litterio chiamava ufficio ma che a lui appariva solo una logora scrivania Ikea con un portatile e una stampante inserite in un cubicolo di stampo monacale, l’ispettore Lombardo batteva una relazione di servizio. Lo faceva con poca voglia e ancor meno attenzione e i refusi si sprecavano: “la moto usata nel gesto criminoso era stata privata delle terga” era l’ennesima perla della relazione sull’ultimo agguato sanguinario che il giorno prima aveva lasciato sull’asfalto un pregiudicato, tale Antonio Senzaterra di anni 43 occupazione benzinaio ma noto intermediario nel traffico di stupefacenti. Come negli anni ’80, da qualche mese era in corso una mattanza da quasi un omicidio al giorno, tutti di presumibile stampo mafioso.

Lombardo si fermò un attimo, poi riprese a digitare pensando che da anni arrestava solamente pesci piccoli e nessuno pronunciava più la parola mafia; né la stampa né la gente comune, era semplicemente diventata una parola fuori moda forse perché nessuno aveva mai spiegato bene cos’era e se faceva male pronunciarla.
Ma il punto non era questo, il punto era che nella mente di Lombardo iniziava a farsi strada l’idea che in Sicilia fosse rimasta solo la criminalità più balorda e feroce, quella senza storia e senza perché, quella priva di un disegno criminoso che non fosse quello di intascare il più possibile senza badare alle conseguenze. Gli sembrava come se nella Trinacria fossero rimasti solo i tentacoli recisi in qualche modo da una testa che probabilmente stava altrove e che, nonostante l’amputazione dal corpo, questi tentacoli si muovessero con scatti e colpi, inferendo ferite mortali a chi si trovasse alla loro portata e si opponesse alla loro sopravvivenza.

Anche a causa dei regolamenti di conti tra i clan rivali, la sera era diventato pericoloso uscire: il rischio di restare casualmente coinvolti nel set di un film di Sergio Leone era concreto e Catania era assurdamente diventata come l’avevano sempre immaginata negli anni passati gli sprovveduti e i meno informati, una città col coprifuoco, con qualche morto nelle strade e insensibile alla violenza. Ci mancava solo la lava a scorrere per le strade per completare l’elenco dei luoghi comuni, ma Sant’ Agata faceva il suo dovere e il vulcano quando eruttava, se eruttava, non faceva troppa paura.

C’è di più: tutti gli omicidi della mattanza in corso erano eseguiti a bordo di potenti motociclette, rapide nell’arrivare e nell’involarsi e nei barocchi salotti catanesi motociclista e motocicletta erano parole brutte che evocavano delitti; in ultimo chiunque avesse una moto era malvisto e sospettato dalla stessa Questura. I tempi non erano normali.

L’ispettore Lombardo era uno dei pochi che tenevano duro, baluardo della normalità: aveva regalato da poco a suo figlio Alberto una monociclindrica per festeggiarne la laurea e faceva lunghe passeggiate la sera sul lungomare – scansando qualche signorina in affitto - in cerca dell’ispirazione e dell’aria salata, anche loro in libera circolazione noncuranti dei pericoli derivati dall’aumento della criminalità. Alberto era il suo unico figlio e sbarcava il lunario come barman: di più, in quella città e in quei periodi, con la crisi che aveva costretto a tagli draconiani pure il bilancio della Polizia, era difficile; la moglie dell’Ispettore se n’era andata anni prima per una banale epatite mal curata e non aveva subito l’umiliazione di vedere il marito con la divisa logora e le scarpe bucate perché il Ministero non aveva i fondi per rinnovare le uniformi né, per esempio, per comprare carburante per tutte le automobili di servizio. Tempi duri, nei quali la massima aspirazione era portare a casa la pagnotta.

Lombardo prese le foto fatte dalla scientifica e stampate su un foglio A4, esaminandole per inserirle nella relazione. La scena era quella di una banale esecuzione: il corpo riverso senza vita sul sedile guida dell’automobile e la portiera sforacchiata dai colpi di mitra, il Senzaterra stecchito; l’agguato era avvenuto di giorno in pieno centro, ad un semaforo: i killer avevano atteso che l’automobile della vittima si fermasse al rosso, l’avevano affiancata e aperto il fuoco dall’alto di una grossa motocicletta, poi si erano dileguati. Erano piovuti in questura numerosi video anonimi fatti con i telefoni nei momenti successivi all’agguato e uno di questi mostrava chiaramente una motocicletta con due uomini coperti da caschi integrali, occhiali da sole, guanti e giubbotti ampi nonostante il caldo; la moto era senza targa e si involava nel traffico paralizzato di Corso Italia ma nella fuga urtava una macchina in sosta e, a bassa velocità, cadeva rovesciando i due malviventi per terra, nel vuoto pneumatico creatosi immediatamente intorno ai due criminali; nell’affollatissima via i passanti si allontanavano spaventati, le macchine acceleravano per allontanarsi dal pericolo e brillavano per la loro assenza eroi capaci di sfruttare quei brevissimi momenti di vulnerabilità dei due killer e magari, se la gente attorno avesse fatto fronte comune, sarebbe stato possibile sottometterli e consegnarli alle forze dell’ordine con un rigurgito di orgoglio civico nel quale anche un ceffone in più o un calcetto affibbiato ai due non sarebbe stato una tragedia. Invece niente, sotto l’occhio dei telefonini i due malviventi si rialzavano con fatica, inforcavano di nuovo la motocicletta e fuggivano a gas aperto.

L’ispettore Lombardo era un vecchio marpione, uno che la sapeva lunga come il suo Guzzi California del 1989. Riportò il video al minuto 1.21, dove si vedeva il conducente della motocicletta alzarsi da terra e toccare il casco sulla sommità come se volesse infilarselo di nuovo, poi dare una stretta – superflua, compulsiva - al cinturino e subito portare le mani sul manubrio per rimettere la moto in posizione verticale. Il tutto durava fino al minuto 1.25, ma era già abbastanza.

Ippolito Lombardo si accasciò sulla sedia, con la fame l’aria. Non c’era tempo da perdere: si fece forza, spense il pc, chiuse la carpetta e se la mise sotto il braccio, uscì a passo svelto dalla Squadra Mobile e accese il California, senza salutare i colleghi fuori dall’ufficio intenti a fumare una sigaretta. Tornò a casa, parcheggiò la moto in garage accanto a quella di Alberto, osservandola con attenzione, poi salì e si accertò di essere solo. Prese il telefono fisso e compose il numero del Procuratore Capo Litterio col quale ottenne un incontro immediato in procura dove si recò a piedi portando il suo pc portatile. Avrebbe voluto avere un dubbio ma da sbirro quale era, sapeva di non sbagliare.

- Ispettore buongiorno, si accomodi.
- Buongiorno Dottore.
- Caffè?
- No, grazie. Posso fare una telefonata?
- Certo, vuole telefonare da qui? – indicando il telefono dell’ufficio.
- Sì, grazie. – l’Ispettore compose il numero del figlio – Alberto ciao, senti un po’… io sono a piedi in procura a prendere dei faldoni dal Dottore Litterio ma sono troppi, non è che puoi venire qui a darmi una mano? Oh, grazie… sì, sali direttamente in ufficio dal Dottore Litterio.
- Che vuol dire, Ispettore? – chiese il Procuratore facendosi serissimo.
- Vuol dire che se devo fare arrestare mio figlio per omicidio preferisco che sia qui dove nessuno può fargli del male. Guardi qui, Dottore. – prese il portatile e gli fece vedere il video della caduta dei killer, Lombardo era pallido ma determinato
- Vede questo gesto di toccarsi il casco e stringere il cinturino dopo la caduta? Alberto lo fa da quando lo portavo a fare minicross da piccolo, è una cosa sua, un gesto compulsivo che gli appartiene, ne riconosco i tempi, i modi. E poi la moto, ho verificato. È la sua, gliel’ho regalata io per la laurea, è pure graffiata dal lato dove la vede cadere in questo video. Ora, Dottore… mi aiuti lei. Se lo mettono in galera di sicuro lo fanno fuori per non farlo parlare; io non ne sapevo niente che mio figlio è un killer della mafia… lo farò collaborare, glielo garantisco, le do la mia parola d’onore ma mi aiuti a non farlo ammazzare… - trattenne a fatica le lacrime.

- Minchia, Lombardo… lei non capisce.
- No, Dottore, sono sicuro che quello nel video è mio figlio Alberto. Ascolti a me…
- Un attimo, Ispettore. Un attimo. – gli fece con le mani segno di sedersi, Lombardo si buttò sulla sedia di quell’ufficio male in arnese e si guardò intorno, percependo lo sfascio un cui versavano le istituzioni dello Stato attraverso i vetri rabberciati, i mobili consunti, la pulizia dei locali approssimativa.

- Non dobbiamo perdere tempo Dottore, appena Alberto arriva lo facciamo confessare, andiamo dal magistrato…

Litterio lo interruppe con lo sguardo, si levò gli occhiali pulendoli con il lembo della camicia.

- Ispettore, i tempi sono duri. Il Governo ci ha tagliato i fondi, non abbiamo mezzi, nemmeno benzina per i servizi di routine, lo vede lei stesso. Le carceri sono strapiene e i processi non si celebrano per mancanza di risorse. La criminalità organizzata se ne sta approfittando e noi, Stato, Istituzioni, Cittadini, stiamo soccombendo. Se non facciamo qualcosa, questa città in poco tempo diventerà terra di nessuno. Abbiamo scelto di chiedere a pochi fidatissimi giovani di fare il lavoro sporco, abbiamo il supporto del Ministero.
Sembrerà come una normale guerra tra clan e tra qualche mese sarà tutto finito; capisce Ispettore?

Ma Lombardo era in trance, inebetito. Seguirono due minuti di totale silenzio.

Il Procuratore continuò:
- La scelta era se continuare a subire e regalare Catania alla malavita o se estirpare in qualche modo il cancro: abbiamo scelto la seconda opzione, avvicinato venti ragazzi di provata moralità e spiegato loro che usando le loro motociclette potevano dare una mano alla comunità in modo… diverso. Li paghiamo noi funzionari, prelevando i soldi in nero dai nostri stipendi, copriamo le spese della benzina, forniamo le armi e le cartucce prelevandole dal deposito corpi di reato. Abbiamo forti rassicurazioni dal Ministero per un loro preciso collocamento, al termine di questa operazione, in ruoli civili della Pubblica Amministrazione.

-Io non gli ho regalato la moto per andare in giro ad ammazzare la gente… io non ho servito quarant’anni lo Stato per vedere mio figlio fare una strage e rischiare la vita!

-Alberto è un bravo ragazzo… coraggioso, siamo tutti riconoscenti a lui e tutti gli altri che si stanno prestando a questa operazione che la malavita non riesce nemmeno a sospettare perché qui sono rimasti solo gli esponenti più balordi… quelli che comandano sono al Nord.
- Ma se lo ammazzano…
- Non accadrà, Lombardo! Lo sa chi era con Alberto in questo video? Chi ha materialmente usato il mitra? Giacomo, mio figlio. Sono tempi duri, per tutti.

- Minchia… pure Giacomino… Mi sto sentendo male… - Lombardo era pallidissimo e sconvolto-
- Senta Ispettore, ci conosciamo da una vita ma voglio ricordarle che è importantissimo che non ne faccia parola con nessuno e soprattutto che nemmeno suo figlio sappia che lei è al corrente, glielo dico come consiglio da padre per evitare che i vostri rapporti possano… risentirne, ecco. A Natale sarà tutto finito.

Dopo un lungo silenzio, l’Ispettore si arrese:
- Ha ragione lei.

Bussarono alla porta dell’ufficio, il Procuratore Capo guardò negli occhi Lombardo, poi disse:
- Avanti! – era Alberto: barba lunga, alto, allegro, ben vestito, con le cuffie nelle orecchie.
-Alberto! Ho dimenticato di richiamarti, è venuto Gullotta a prendere tutti i faldoni… scusami! Va bene, vuol dire che adesso mi faccio perdonare offrendo la granita a te e al Dottore Litterio…
- Grazie papà ma a questo punto io avrei da fare; buongiorno Dottore.
- Ma che devi fare? Dai, dieci minuti e poi scappi!
- No, papà proprio non posso, mi aspettano: vado a fare un giro, in moto. Tranquillo.

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