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- Carmelo…
- …si? – un grugnito, più che una voce.
- …dormi?
- No… ci tento con tutte le mie forze.
- Sono le tre e mezzo… scusa. Non ho sonno.
- …beh… mi sento pienamente autorizzato a mandarti a quel paese; se permetti vorrei dormire, domani è lunedì.
- …Carmelo… ma tu non lavori, e poi è già lunedì.
- Quindi ci rimane veramente poco tempo per riposare, vedi di dormire almeno tu che hai ancora un lavoro.
Sessanta secondi e poi altri trenta: il tempo di un giro di pista. Marisa non riuscì ad aspettare oltre.
- Carmelo…
- Che c’è?!! – la speranza di dormire in santa pace era effimera come il lampeggio allarmato del rev limiter.
- Scusami… niente. – rispose una vocina dalle orecchie basse.
- Porco mondo, stavo cercando di dormire! Che c’è?
- Niente… no, cioè… hai visto la gara ieri?
- Sì che l’ho vista.
- E che ti è sembrato?
- Niente, che doveva sembrarmi? Una gara con un vincitore, un secondo, un terzo a completare il podio e via tutti gli altri!
- Ma…
- … vogliamo dormire oppure vogliamo fare il processo del lunedì al Gran Premio di ieri? No dai, dimmelo che chiamo quattro amici e costituisco un collegio giudicante…
- Va bene. È che non riesco ad addormentarmi...
- Vedrai che se ti concentri cadi nel sonno come una pera cotta.
- Ok, buonanotte.
- Speriamo.
Alle quattro e dieci dei passetti piccoli piccoli ruppero il silenzio della camera da letto e la porta socchiusa cigolò. Carmelo si destò automaticamente, lo stesso fece Marisa ma lei non dormiva con lo stesso profondo accanimento del marito. Nel buio la voce di Andrea, sette anni appena, era una nota timida come di un flauto che prova ad inserirsi nel suono di una potente orchestra.
- Mamma…
- Andrea, tesoro… che c’è? Non riesci a dormire?
- No, faccio sogni brutti.
- Vieni qui, sono sveglia anch’io. Vuoi una favola?
- No, mamma. Posso dormire nel lettone? Ho paura a dormire da solo…
- Va bene, mettiti qui – gli fece un po’ di posto tra sé e il margine del letto.
- Riusciamo a fare silenzio? Non c’è niente di cui avere paura…– Carmelo non esitò a rimbrottare madre e figlio.
- Su, un attimo di pazienza. – Marisa si girò e diede le spalle a Carmelo che sbuffando si mise il cuscino sulla testa nel tentativo di fare capire che non voleva assolutamente udire volare una mosca.
Era molto buio, in quella stanza da letto di una villetta nella zona residenziale della grande città ostile a tutti. Il soffitto si illuminò debolmente quando un fischiettio leggero provenne da un telefono cellulare lasciato acceso e poggiato sopra il canterano d’epoca.
- Ti è arrivato un messaggio al tuo numero privato, vero?
- Sì, Marisa, è il mio cellulare privato. – Carmelo si alzò rassegnato e distrutto dall’insonnia, coprì i tre passi fino al cassettone e diede uno sguardo timoroso al telefono. C’era un sms e pensò che non aveva voglia di rispondere, tanto aveva la scusa che stava dormendo e poi molte volte questi sms sono soltanto richieste di attenzione e di aiuto, razzi di segnalazione inviati da chi spera di far notare la propria esistenza ed attribuirsi la paternità di emozioni reputate importanti ai fini della classificazione della propria persona come essere umano, pensante, dignitoso. Ma sono pur sempre dei bengala di disperazione, specie quando vengono inviati di notte senza il timore di disturbare, di trasmettere ansia o comunque di apparire ridicolmente inferiori come persone o come razza.
Infatti Carmelo pensò che il motociclista è una brutta razza, di certo inferiore.
Di una cosa si può onestamente morire se solo si ha la cattiva abitudine di guardarsi indietro e giudicarsi con gli occhi del presente: di rimorso. Per non provar rimorso bisogna essere o totalmente cinici o allegramente stupidi, se definiamo stupido chi cagiona danno ad altri senza trarne alcun vantaggio per sé.
Carmelo non era stupido, né cinico. Semmai era instupidito dall’ora, dalla mancanza di sonno, dalla dose eccessiva di caffè della sera prima e dalla cattiva digestione non solo del pranzo della domenica ma anche di tutto quello che aveva introiettato materialmente e moralmente nelle ore successive. Cibo e magone, caffè e farfalle, alcol e sensi di colpa.
I piedi nudi divennero ancora più freddi, ciò che temeva era già accaduto con tutte le conseguenze amare che erano state da lui ampiamente previste e il rimorso di non poter più fare niente lo ghiacciò come Han Solo dentro la carbonite nell’indimenticabile “L’impero Colpisce Ancora”.
Anche nel caso di Carmelo “l’impero” aveva colpito ancora, e lui ne era complice. Prima di accettare di licenziarsi, appena due mesi addietro, aveva ingaggiato una battaglia per la sicurezza dei piloti nella pista di quel paese emergente pieno di denaro, di nuovi ricchi e di prospettive per il mercato delle motociclette. L’Europa era in crisi, una crisi dalla quale non si sarebbe più ripresa se non rinnegando se stessa, e le case motociclistiche cercavano nuovi sbocchi dove vendere le proprie produzioni di lusso.
La gara, in quel tracciato, si sarebbe tenuta soltanto dopo il suo parere positivo sulla sicurezza che comprendeva valutazioni inerenti gli spazi di fuga, la visibilità, la prevedibilità delle traiettorie, la qualità dell’asfalto e dei servizi di soccorso e delle relative infrastrutture. Carmelo, in qualità di responsabile per la sicurezza dei piloti, mise il naso pure sulla formazione del personale e ne chiese la parziale integrazione con operatori provenienti da piste già da anni presenti nel calendario della MotoGp, in modo da formare sul campo il personale locale e garantire in pista un servizio comunque adeguato ai rischi dei piloti. Tutte le sue valutazioni furono accolte e due mesi prima dello svolgimento della gara Carmelo volò ad ispezionare l’impianto prima di firmare il suo parere positivo allo svolgimento della corsa.
L’impianto era sontuoso e lo sviluppo della pista singolare e affascinante. L’asfalto si adagiava su alcune colline naturali in un emozionante saliscendi che culminava nel lungo rettilineo in forte discesa verso il lago, dando l’impressione di tuffarsi nelle sue acque salmastre. Al termine del rettifilo, una stretta curva a destra avrebbe imposto ai piloti una violenta staccata fino alla seconda marcia ma gli spazi di fuga erano adeguati, misti d’asfalto e sabbia, e Carmelo non obbiettò.
Come suo solito, prima di firmare e consentire lo svolgimento del Gran Premio nei mesi successivi, preferì fare un giro a piedi del circuito, da solo. Era mattino e l’umidità lucidava l’asfalto ma tra due mesi avrebbe fatto più caldo e questo non avrebbe costituito alcun problema. Ci mise un’oretta scarsa, ammirando la cura e lo sforzo economico nel concepire e realizzare una pista tra le migliori al mondo, esattamente come gli organizzatori pomposamente dichiaravano. Concluso il giro, decise di fare qualche centinaio di metri in più e di arrivare di nuovo fino alla prima curva, per contemplare dal basso il capolavoro ingegneristico del rettifilo di partenza; in pratica era costituito da due discese: fino a metà era dolce, per poi diventare una vera e propria picchiata negli ultimi cinquecento metri; viste dall’ultima curva – che costituiva la sommità del rettilineo -, le moto sembravano inghiottite dal lago e sparivano dalla vista, tanto era forte la pendenza del tratto conclusivo. I piloti ne avevano parlato come di un punto da Tourist Trophy.
Poco dopo il cartello che avvertiva dei trecentocinquanta metri alla curva, Carmelo notò che la pista era ancora umida per un tratto di pressappoco cento metri. Strano, pensò: l’umidità del mattino si è asciugata in tutta la pista ma non qui, tra l’altro senza che vi siano zone d’ombra. Si mise al centro del punto umido e toccò l’asfalto trovandolo quasi bagnato e con tracce di una sabbiolina marrone finissima. Si piantò le mani sui fianchi e poi iniziò a telefonare. Mano a mano la sua voce si faceva più allarmata e solitaria nel circuito deserto, chiudeva le chiamate poi ne faceva altre, parlando due lingue diverse e incazzandosi sempre nella stessa maniera. Ogni tanto tornava a carezzare l’asfalto come per accertarsi delle sue impressioni e, guardandosi la mano umida e marroncina, sbraitava.
Nel volo di ritorno scrisse due lettere: una di dimissioni alla società organizzatrice del Campionato del Mondo di motociclismo e un’altra che mandò al campione del mondo in carica – tra l’altro fiero del proprio primato in classifica, fino a quel momento - . Nella prima non motivò le sue dimissioni, nella seconda pregò il campione del mondo di valutare attentamente quel punto della pista e di evitare di correrci, scioperare, avvertire gli altri piloti, surrogarsi al responsabile della sicurezza appena dimessosi, raccomandando cautela e discrezione perché gli interessi in gioco erano tanti.
Carmelo era spaventato: era convinto che una falda acquifera connessa al lago avesse in qualche modo trovato la via verso la superficie dopo gli scavi per la costruzione dello scenografico rettilineo finale, permeando fino a bagnare l’asfalto e portando con se della scivolosa sabbiolina proprio nel punto dove la frenata era più dura, rendendolo pericolosissimo. Ma se da una parte aveva ricevuto da fior di ingegneri le più ampie rassicurazioni, dall’altra, l’evidenza dell’esistenza del tratto umido lo rendeva dubbioso sulle valutazioni della società organizzatrice e della proprietà del circuito. Decise quindi di non prendere posizione ufficialmente ma di dimettersi senza addurre pubblicamente motivi in modo da non fare la figura dell’allarmista babbeo nel caso il pericolo fosse rientrato e, contemporaneamente, per non firmare un permesso allo svolgimento della gara che lo avrebbe reso responsabile nel caso lui avesse avuto ragione e qualcuno si fosse fatto male seriamente. Di certo, se si fosse corso, i piloti avrebbero visto il tratto umido e avrebbero ridotto la velocità e il pericolo, ma questa era una valutazione razionale valevole soprattutto per le prove: in gara, sotto adrenalina, tutto può succedere e Carmelo aveva l’esperienza necessaria a saperlo molto bene.
In due mesi, pensava Carmelo spedendo quelle lettere, le cose possono cambiare: i piloti possono fare la voce grossa, gli organizzatori ravvedersi rimandando la gara per risolvere il problema e lui recuperare il suo ben remunerato incarico e tornare al proprio posto di lavoro senza avere sollevato polveroni che avrebbero potuto creargli dei nemici in un ambiente di squali. Tutto si sarebbe aggiustato, con un po’ di pazienza e di buon senso da parte dei piloti e degli organizzatori. Sentiva di avere già fatto la sua parte e ora chiedeva lo stesso ai motociclisti, - razza fiera, competitiva, edonista e superbamente amante del rischio - e agli imprenditori dello sport, questi ultimi per loro stessa natura sempre propensi all’azzardo e all’interesse.
Invece, due mesi dopo, Carmelo era lì dove lo vedete adesso: a piedi nudi di fronte al canterano, al buio, sua moglie e suo figlio svegli e impauriti; la gara si era corsa quel pomeriggio alle quattordici ore italiane e alle quattro e trentadue della notte qualcuno cedette al dolore, inviando un sms ad un numero di cellulare noto solo ai cinque o sei più fidati amici di Carmelo.
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